
Dal fast fashion ai brand di lusso: qual è la situazione nel mondo della moda?
L’eticità e sostenibilità nel mondo della moda non si misurano solo sulle emissioni del processo produttivo o della distribuzione. L’altra faccia della medaglia è la forza lavoro. Da quando è esploso il fenomeno del fast fashion, la questione dello sfruttamento operaio torna, ciclicamente, sul tavolo dei problemi annosi.
L’impressione è che più le realtà aziendali si fanno grandi e digitali, più controverse e oscure si fanno le politiche in materia occupazionale. In tal senso, la pandemia ha soverchiato il vaso di Pandora.
Lo racconta, ad esempio, un rapporto curato da Clean clothes campaign, la rete internazionale di sindacati del settore tessile, “Breaking point”, che ha raccolto le testimonianze di alcuni lavoratori dei marchi H&M, Nike e Primark in Bangladesh, Cambogia e Indonesia. Il Covid ha portato tagli agli stipendi già incredibilmente bassi: in Bangladesh, ad esempio, nel 2019 un operaio guadagnava in media 135 dollari al mese, con un picco massimo di 217 dollari con bonus e straordinari. Lo scorso anno, invece, gli stipendi si sono ridotti rispettivamente a 128 dollari e 150 dollari. Sempre le stesse catene hanno fermato i pagamenti durante i mesi della pandemia, e questo nonostante il boom degli e-commerce durante il lockdown. Gli arretrati per i lavoratori, racconta il report, nel 2021 si aggiravano tra i 2.890 dollari per Primark, 2.368 dollari per H&M e 1.527 dollari per Nike. Quest’ultima, in particolare, ha chiuso il 2020 con l’utile netto di 3,4 miliardi di dollari.
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Lo sfruttamento delle donne
A questi numeri si aggiungevano i dati ancora più drammatici sullo sfruttamento delle donne, quelle che, secondo il rapporto, nel campo dell’industria tessile soffrono le aggressioni e le molestie sessuali da parte dei datori di lavori. E ciò accade in paesi dove manca il supporto legale per questo genere di reati, dove la cultura patriarcale è così infiltrata nel tessuto sociale ed economico che non denunciare è la normalità.

Nell’era dell’attivismo social queste tematiche dovrebbero risvegliare la coscienza collettiva e cambiare il sistema. Negli ultimi anni i cittadini sono diventati sempre più consapevoli sul tema della sostenibilità, sia dal punto di vista ambientale che lavorativo. E questo le multinazionali della moda lo hanno compreso benissimo, tanto che l’azienda svedese H&M ha detto basta al cotone dello Xinjiang: due anni fa, un’inchiesta della BBC aveva portato alla luce il regime di schiavitù in cui lavoravano uiguri e altre minoranze nei campi di cotone della regione. Più di un milione di persone, secondo i documenti, lavorano nei campi e nelle aziende tessili in clima di coercizione e povertà totale. Un’accusa respinta dalla Cina, che parla di “scuole professionali” e non di campi veri e proprio. Resta il fatto che la Cina produce il 22% del cotone mondiale, di cui l’84% concentrato nello Xinjiang.
E-commerce da schiavitù
Ed è sempre in Cina che un’inchiesta della giornalista Iman Amrani ha portato allo scoperto un quadro ancora più grave: quello di Shein, il “fast fashion sotto steroidi”. Dietro il marketing aggressivo e la comunicazione social sempre sul pezzo, dietro l’e-commerce più noto al mondo si nasconde uno sfruttamento senza precedenti nella filiera tessile, e lo dimostrano le immagini riprese in due fabbriche che producono abiti e accessori per Shein, a Guangzhou. Dall’inchiesta (Untold: Inside the Shein Machine) è emerso che gli impiegati lavorano 17-18 ore al giorno, con un solo giorno di riposo al mese e uno stipendio base di 4,000 yuan mensili (circa 540 euro). In uno degli stabilimenti, invece, gli operai vengono pagati 40 centesimi per capo. E se l’azienda scopre difetti nella produzione di un vestito, trattiene due terzi dello stipendio.
Come se non bastasse, c’è il furto da parte di Shein di abiti realizzati da stilisti emergenti e/o indipendenti. Ne ha parlato il Guardian, che ha rintracciato alcuni artisti che si sono visti derubare le loro creazioni. Ad esempio la pittrice ad olio Vanessa Bowman, specializzata nel ritrarre le campagne inglesi, si è vista i suoi stessi dipinti riprodotti su dei maglioni venduti a trenta dollari.
Non solo Cina
L’attenzione dei media sul fast fashion non rende i brand di lusso o importanti aziende nostrane dei campioni di diritti del lavoro.
Sempre il rapporto Clean Clothes Campaign ha dedicato un capitolo alla Romania, denunciando i salari da fame che percepisce mezzo milione di persone nell’industria, impiegati per Armani, Asos, Benetton, Dolce & Gabbana, Hugo Boss, Louis Vuitton, Levi Strauss e altri.

E in Italia? Secondo Secondo il rapporto 2022 Excelsior-Unioncamere di Confindustria moda, emerge che il settore del Tessile, Moda e Accessorio nel periodo 2022-2026 avrà bisogno di compiere da 63mila a 94mila assunzioni. Tanto che esistono iniziative, come quella dei Fashion Talent Days, giornate di scouting delle aziende più importanti alla ricerca di addetti alla cucitura, textile designer, disegnatore tecnico, meccanici di tessitura, ma anche professioni più verticali sul tema della sostenibilità, come Manager per Sostenibilità Ambientale e Product Life-Cycle Manager. Figure, quest’ultime, sempre più necessarie per, almeno, sperare in un cambio di rotta.