Processo ILVA, condannati in primo grado i fratelli Riva e Nichi Vendola

Sono 47 gli imputati, 44 persone e 3 società, nel processo Ambiente Svenduto. Arrivano le prime condanne pesanti. Gli avvocati ricorrono in appello mentre i tarantini esultano

 

Condannati per disastro ambientale i fratelli Fabio e Nicola Riva, ex proprietari dell’ILVA di Taranto. È il giudizio finale della Corte d’Assise di Taranto che vede tra gli indagati anche Nichi Vendola, all’epoca dei fatti presidente della Regione Puglia, condannato a 3 anni e 6 mesi per concussione aggravata in concorso, accusato di aver esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia Giorgio Assennato, per addolcire la posizione dell’Agenzia sulle emissioni nocive prodotte dall’’ILVA. Assennato, invece, è stato condannato a 2 anni per favoreggiamento. La sentenza, attesa da molti, troppi, anni, è la degna conclusione di una storia che vede 47 imputati, 44 persone e 3 società, tutti accusati a vario titolo di disastro ambientale in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Confiscati gli impianti, attualmente della società Acciaierie d’Italia, di Arcelor Mittal e Invitalia.

Il pm del processo Ambiente Svenduto, ha chiesto condanne per 400 anni di carcere a imprenditori, politici e dirigenti del polo siderurgico. Intanto, tutti gli avvocati hanno deciso di ricorrere in appello.

Tutto è iniziato il 26 luglio 2012 quando furono sequestrati gli impianti dell’area a caldo del siderurgico. In 50 anni, una serie interminabile di denunce, carte prodotte, testimonianze, prove inconfutabili, sono state prodotte dai cittadini per dimostrare in tutte le sedi istituzionali che l’ILVA produceva veleni estremamente tossici per la salute umana e produceva inquinamento ambientale. I tarantini avevano addosso, nel corpo e dell’anima i segni indelebili lasciati dall’ILVA: migliaia i morti di tutte le età nel corso degli anni a causa delle esalazioni respirate che hanno provocato malattie gravissime e incurabili, malformazioni ai feti, tumori, famiglie distrutte e decimate dai veleni dell’ILVA. Come i residenti del Quartiere Tamburi, vicino al polo siderurgico, che hanno vissuto, vivono e vivranno sempre con polvere nera fuori e dentro le case. Persino l’allevatore che è stato costretto ad uccidere 700 pecore perché avvelenate dalla diossina ormai presente nell’erba, nei pascoli, nell’acqua e nella terra di Taranto. L’inquinamento prodotto dall’acciaieria avvelenava anche le colture, tanto da costringere gli amministratori a emanare ordinanze e leggi che vietavano il consumo dei prodotti alimentari di Taranto.

Per poter procedere all’inchiesta e celebrare il processo, è stato necessario raccogliere prove inconfutabili dagli inquirenti, perché l’ILVA non è soltanto un’azienda che ha portato lavoro e inquinamento nel Sud Italia, ma rappresenta la forza industriale di un Paese, l’Italia che ha bisogno di un’economia industriale forte per poter sostenere il confronto con gli altri Paesi e avere un posto di riguardo al tavolo delle decisioni.

Bisognerà comunque attendere i tre gradi di giudizio della giustizia italiana per poter cantare vittoria, dove si prevede una dura battaglia, sia in tribunale e sia fuori.

Questa sentenza dà, almeno per il momento, giustizia a tutti i morti per colpa dei veleni dell’ILVA, ma non potrà riportare mai indietro ai tarantini il passato e i figli morti.

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