Wet market, covi di barbarie e di virus

In questi mercati, gli animali vengono tenuti in gabbiette sporche, venduti e macellati per strada. Stracciati i diritti degli animali, assenza di igiene e terreno fertile per i virus

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Wet market (foto: Animal Equality Italia – Flickr)

Sono i luoghi nei quali si sono sviluppati i virus SARS, H1N1, MERS e COVID-19 che dagli animali sono passati all’uomo. Ricettacoli di malattie gravi e letali, dunque, sono luoghi di morte e sofferenza degli animali. Sono luoghi dove l’igiene non esiste. Ma sono anche luoghi identificativi di alcune culture e sono diventati attrazioni turistiche.

Si chiamano “wet market”, mercato umido. In questi mercati ci sono animali vivi, stipati in piccole gabbie in mezzo alla sporcizia, all’acqua e a fluidi biologici, che vengono macellati in loco davanti agli occhi dei clienti e venduti come “carne fresca”.

Una pratica evidentemente brutale, che non tiene conto ne dell’igiene pubblica e ne dei diritti degli animali.

Per queste ragioni, l’organizzazione internazionale per la protezione degli animali allevati a scopo alimentare Animal Equality ha lanciato una campagna mondiale e una petizione per chiudere immediatamente questi mercati.

«È praticamente impossibile calcolare il numero esatto dei wet market nel mondo, si tratta di un fenomeno estremamente diffuso in Asia e in Africa, anche in modo irregolare». Ha dichiarato Matteo Cupi, Direttore Esecutivo di Animal Equality in Italia, che ha risposto alle nostre domande.

Cosa si vende in questi mercati?

«In questi mercati si vendono animali vivi – tenuti in gabbia – che vengono poi macellati sul momento di fronte agli acquirenti. Lo scambio di fluidi quindi tra animali, lavoratori e clienti è molto frequente. In particolare, questi mercati hanno un mix di animali selvatici catturati (più o meno legalmente, a seconda della specie) e animali invece allevati a scopo alimentare. Si possono trovare rane, coccodrilli, procioni, cani, gatti, daini, polli, galline etc. tutti ammassati insieme nelle gabbie».

Da chi sono gestiti?

«Sono gestiti a livello locale e questo cambia a seconda del Paese. In teoria, comunque, le autorità locali effettuano controlli sanitari, ma, ad esempio, il mercato di Wuhan dove gli scienziati ipotizzano che sia avvenuto lo spillover animale-uomo era stato già segnalato per le condizioni igienico-sanitarie precarie».

Che impatto hanno sulle comunità?

«Sono molto diffusi in Asia, fanno parte delle loro abitudini, così come è possibile consumare carne di animali che in altre zone del mondo invece non sono considerate legali. In Asia e Africa è frequente vedere “wet market” anche nei villaggi più piccoli, dal Marocco all’Indonesia».

Perché le autorità non chiudono i wet market?

«A livello locale, in Cina sono stati chiusi temporaneamente a seguito dello scoppio dell’epidemia COVID-19, ma si tratta appunto di una misura temporanea e comunque che varia molto a livello locale. Diciamo che sono sicuramente posti dove c’è un giro economico e dal punto di vista culturale sono considerati parte integrante delle società in questione. Purtroppo non è semplicissimo chiuderli, ma la nostra speranza – e l’obiettivo con cui lavoriamo da oggi in poi – con la petizione è proprio quella di fare in modo che siano anche le autorità internazionali come l’ONU a spingere questi Paesi a un cambiamento».

Rientrano anche nei “circuiti turistici”?

«Sicuramente alcuni sì, come quello di Hong Kong. In Asia purtroppo è frequente che siano visitati dai turisti, ma dipende dalle zone».

Alla luce delle nostre conoscenze attuali, perché qualcuno dovrebbe ancora comprare nei wet market?

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Wet market (foto: Animal Equality Italia – Flickr)

«Sicuramente è una scelta che noi sconsigliamo caldamente, non solo per l’impatto terribile sugli animali ma anche per i rischi sanitari connessi. Probabilmente andrebbero prese maggiori decisioni da parte delle autorità e andrebbero diffuse maggiori informazioni in quei Paesi circa i rischi enormi che si corrono. Anche per questo abbiamo lanciato questa petizione, vanno vietati».

Insomma, i wet market vanno chiusi per il bene di tutti. È vero, producono reddito e sostengono le economie locali, ma sono terreno fertile per le criminalità e provocano danni incalcolabili che ora stiamo iniziando a pagare ad un prezzo altissimo a livello mondiale. Per questi motivi, è fondamentale un intervento mirato e risolutivo dell’ONU che, insieme ai Paesi interessati, deve sviluppare azioni di sostegno a queste economie. Finanziamenti mirati e progetti ecosostenibili possono salvare gli animali, le comunità, l’ambiente e la salute pubblica mondiale.

(Le foto sono state gentilmente concesse da Animal Equality Italia, pubblicate sul loro profilo Flickr. Abbiamo scelte quelle meno raccapriccianti per non offendere la sensibilità dei lettori.)

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