
Non piace a molti l’emendamento “sblocca trivelle” del Governo Meloni, che promette di recuperare dai giacimenti 1,5 miliardi di metri cubi di gas da destinare a prezzo calmierato a 150 imprese energivore. Quali i vantaggi reali per popolazione e imprese? Quali i rischi per l’ambiente? Emiliano: “In Puglia che fine faranno i parchi eolici offshore?”
“Questo emendamento non s’ha da fare”: non le mandano a dire al Governo Meloni Greenpeace Italia, Legambiente e WWF, che in una nota considerano l’ emendamento al “decreto aiuti”, appena approvato dal Consiglio dei Ministri, un regalo alle industrie petrolifere estrattive, in primis all’ENI, e un “marginale” vantaggio per le industrie energivore, per giunta ben lontano dagli impegni per la decarbonizzazione dell’economia assunti dall’Italia su scala globale, dato che favorisce la fornitura e l’uso di una fonte fossile come il gas a prezzi agevolati.
Sulla stessa lunghezza d’onda altre associazioni, per non parlare dei presidenti delle regioni che si affacciano sull’Adriatico, Veneto e Puglia in prima linea, tutti uniti nel dire no a un’attività che potrebbe avere effetti devastanti sugli ecosistemi, sulle popolazioni costiere e, non ultimo, sulla realizzazione di parchi eolici offshore. Insomma, duello all’ultimo sangue tra fonti fossili come il gas e il petrolio, e fonti di energia rinnovabile come il vento.
Le trivelle che piacciono al Governo
Si chiama “Gas release”, ed è l’emendamento presentato dal Governo Meloni sulle trivelle che, con l’intento di offrire 1,5 miliardi di metri cubi di gas all’anno a prezzo calmierato a circa 150 imprese gasivore segnalate da Confindustria, punta a semplificare l’iter amministrativo di alcune concessioni. Il primo passo è l’autorizzazione di nuove concessioni per estrarre nell’Adriatico gas dalle 9 alle 12 miglia dalla costa.
Gli operatori potranno estrarre per “la durata della vita utile del giacimento”, ben oltre le tempistiche previste dai contratti con il Gestore dei servizi energetici e dalle norme generali relative alle concessioni. A sua volta il GSE girerà il gas estratto alle imprese selezionate per la grande quantità di energia impiegata e quindi per le forti spese sostenute, ad un prezzo tra i 50 e i 100 euro a Megawattora. L’estrazione di gas potrà avvenire solo da giacimenti dove non si rilevano rischi di fragilità per l’habitat e con un potenziale superiore a 500 milioni di metri cubi, ma potrebbero aggiungersi altre forniture da nuovi siti individuati o “recuperati”. Il gas a prezzo calmierato dovrebbe essere a disposizione da gennaio 2023.
Dove si estrae il gas in Italia

In Italia i giacimenti di gas veramente operativi sono circa 500 sul totale di circa 1300 censiti, che producono quasi 4.500 miliardi di metri cubi di gas. Le coste dell’Adriatico centro-settentrionale fanno la parte del leone producendone oltre la metà, il resto viene dai giacimenti della terraferma, soprattutto della Basilicata che da sola garantisce i tre quarti di gas estratto a terra. Le stime del nuovo Ministero dell’ambiente e sicurezza energetica parlano di un potenziale di poco meno di 40 miliardi di metri cubi di gas da estrarre, di cui meno della metà (il 46%) dalle profondità marine.
Nelle attività di ricerca ed estrazione di gas sono state inserite anche quella al largo della foce del Goro sul delta del Po (storicamente esclusa per rischi di subsidenza e per la fragilità del sistema complessivo della foce del fiume) e la costa al largo di Agrigento, con la possibilità per ENI di riproporre la richiesta di concessione per i due pozzi siciliani Panda e Panda W1. In entrambi i casi i concessionari devono dimostrare non solo l’assenza di effetti di subsidenza significativi, ma anche la presenza di “elevato potenziale minerario”, traducibile in una capacità complessiva del giacimento superiore a 500 milioni di metri cubi.
Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin ha detto che “potenzialmente si stima una quantità di 15 miliardi di metri cubi sfruttabili nell’arco di 10 anni”; la Premier Giorgia Meloni a sua volta ha dichiarato “Chiederemo ai concessionari di mettere a disposizione, in cambio, da gennaio gas tra 1 miliardo e 2 miliardi di metri cubi da destinare ad aziende energivore a prezzi calmierati. Basteranno?
Gli ambientalisti: Minimo l’impatto sulla indipendenza energetica. Servono più rinnovabili
“Sommando riserve certe e probabili, avremmo poco più di un anno di consumi di gas. Con impatti minimi su indipendenza e costo dell’energia. Servono invece più rinnovabili, efficienza e risparmio energetico”. Così Greenpeace Italia su Twitter appena annunciato il provvedimento dal governo Meloni. Infatti, come scrivono Greenpeace Italia, Legambiente e WWF in una nota congiunta, “le motivazioni alla base della decretazione d’urgenza relative alla sicurezza degli approvvigionamenti sono inconsistenti dato che il nostro fabbisogno annuale di gas si aggira attorno ai 76 miliardi di metri cubi e che la produzione annuale di gas nazionale pesa attorno ai 3-5 miliardi di metri cubi l’anno e, secondo le stime del governo, l’incremento atteso con l’emendamento sblocca trivelle è di 15 miliardi di metri cubi in 10 anni, cioè 1,5 miliardi di metri cubi l’anno, che sarebbero equivalenti solo all’1,9% del fabbisogno nazionale”. Un intervento che contribuirebbe a sganciarci dalla dipendenza dal gas russo, ma in minima parte.
Sono altre le proposte degli ambientalisti, che ruotano tutte sull’accelerazione da dare alle rinnovabili e di cui parlava il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee – PITESAI, elaborato dal Ministero della Transizione Ecologica e approvato nel settembre 2021 ma di cui non c’è traccia nelle decisioni del governo e che porterebbe a tanti nuovi posti di lavoro. Propone di puntare decisamente sul biometano “che è quantitativamente paragonabile al gas fossile, è più conveniente economicamente ed è rinnovabile” il Coordinamento FREE, mentre il Comitato No petrolio, Sì energie rinnovabili chiede un ’accelerazione delle norme e delle linee-guida su eolico, fotovoltaico e comunità energetiche, “che meriterebbero finalmente una vera e propria svolta, anche attraverso la costruzione di forti rapporti con i territori”.
“Siamo certi- commentano ancora Greenpeace Italia, Legambiente e WWF – della sincera volontà della Presidente del Consiglio Meloni di tener fede agli impegni recentemente presi occasione della COP27. Ma per abbattere le emissioni climalteranti non abbiamo bisogno di nuove trivelle ma di un nuovo Piano nazionale Integrato Energia Clima (PNIEC), che tenga conto dei nuovi target europei (REPowerEU), e dell’approvazione di una legge sul clima su cui basare le urgenti scelte politiche che sia capace di creare un confronto con la comunità scientifica”.
Le regioni: “Non se ne parla proprio”

“Ammesso che venga estratto chissà quanto gas e petrolio nell’Adriatico e più in generale nei mari italiani, se va bene potremmo soddisfare tra il 5 e il 7% del fabbisogno nazionale, cioè quantitativi risibili che i concessionari otterranno con la deroga ad estrarre entro e non oltre le 12 miglia marine. Di questo 5 – 7% di gas o petrolio estratto a noi andrebbe, a prezzo calmierato, solo una parte “concessa” dai concessionari. Mi chiedo invece cosa sarà dei tre giganteschi parchi eolici, anch’essi dal forte impatto che verranno realizzati nell’Adriatico ambientale (nel Gargano, tra Bari e Barletta e in Salento tra Castro e Leuca, n.d.r.) proprio nelle zone dove si rischia che vengano date le autorizzazioni alle ricerche petrolifera”. Così un battagliero Michele Emiliano, presidente della regione Puglia. Deciso a difendere le coste pugliesi dal possibile assalto delle trivelle. Da ricordare che la Regione lo scorso gennaio ha presentato al Consiglio di Stato appello contro la sentenza della Corte di Giustizia UE che demanda allo Stato la possibilità di rilasciare autorizzazioni per le attività di ricerca di idrocarburi in mare, bypassando così le regioni.
Ribadisce il no alle trivellazioni in mare Adriatico anche il presidente della regione Veneto Luca Zaia. “Nel referendum del 2016, io avevo sostenuto il no alle trivelle, come quasi l’86% dei veneti e degli italiani. E oggi, confermare quel no non è soltanto una questione di coerenza”, dichiara.
Il pericolo è lo sprofondamento dei terreni e dei fondi marini, che “in seguito alle trivellazioni degli anni Cinquanta sono stati imponenti e devastanti. Ci sono zone in cui il fondo si è abbassato di quattro metri, con una progressione dei cedimenti anche oggi inesorabile. Nel Polesine è stato un disastro colossale”. Zaia spiega che “la prima industria del Veneto è il turismo, la metà del fatturato viene proprio dalle spiagge”. La vicina Croazia trivella ma “noi abbiamo fondali sabbiosi, non rocciosi come quelli. La nostra non è una posizione ambientalista e tantomeno ideologica. Per dire: noi siamo favorevoli ai rigassificatori e siamo pronti ad aumentare la capacità di quello che già c’è. Io capisco fino in fondo la preoccupazione del governo. Però c’è luogo e luogo”.