
Oggi e domani a Roma il vertice delle 20 potenze del Mondo chiarirà come affrontare concretamente la lotta al cambiamento climatico?
Quello che si apre oggi è un po’ l’antipasto di un pranzo dalle portate impegnative da digerire per molti commensali, prima fra tutte quella che ha per ingrediente principale il clima. E in effetti il G20 che si sta tenendo in queste ore in una Roma blindatissima fino al 31 ottobre fa da apripista alla COP 26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in programma a Glasgow dal 1° all’11 novembre, perché nella città eterna verranno saggiati i reali obiettivi dei Grandi della Terra non solo sul contrasto alla pandemia e sulle scelte socio-economiche, ma soprattutto sul clima. I Paesi del G20 (Argentina, Australia, Brasile, Gran Bretagna, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, India, Indonesia, Italia, Messico, Russia, Sudafrica, Arabia saudita, Corea del Sud, Turchia, Stati Uniti, Unione Europea). si presentano all’ appuntamento, quasi tutti, tranne l’India, con obiettivi di decarbonizzazione, ma molti Paesi non hanno ancora alcun piano verso le emissioni zero. I paesi del G20 rappresentano il 60% della popolazione globale, e sono responsabili insieme del 78% delle emissioni globali di gas serra (Emissions Gap Report 2021 | UNEP – UN Environment Programme), dunque devono avere un ruolo primario nell’affrontare la crisi climatica e nel fermare la perdita di natura.
L’aperitivo di questo “pranzo” c’è stato a Napoli lo scorso luglio e già in quella occasione non venne raggiunto un risultato comune. Infatti in quell’occasione fallirono gli sforzi dell’Italia – che presiedeva la riunione dei ministri dell’ambiente – di convincere paesi come Cina, Russia, Brasile e India, ad accelerare i tagli alle emissioni di CO2 per mantenere l’asticella su quel 1,5° di temperatura globale da non superare, e a ridurre l’uso del carbone.
Perchè il G20 è importante

A Roma le speranze che potenze come Cina, India, Brasile, Australia e Russia si pieghino alle richieste di molti – ma non tutti – Paesi dell’Unione Europea (che dal 1990 ad oggi ha ridotto del 31% le emissioni di Co2 con una crescita economica del 60%), non sono certezze e si dovrà faticare parecchio per avere una roadmap spendibile a Glasgow. Nella città scozzese si lavorerà per un accordo su come affrontare i cambiamenti climatici, cercando di mantenere gli obiettivi dell’ Accordo di Parigi durante la COP 21 del 2015, quando tutti i Paesi accettarono di collaborare per limitare l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi, puntando a limitarlo a 1,5 gradi. In quell’occasione i Paesi s’impegnarono anche ad adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici e a mobilitare i fondi necessari per raggiungere questi obiettivi.
A Roma si tenterà di smussare, tra le altre cose, la granitica posizione dell’India – molto scettica sulla transizione verde, a meno di dirottare su Nuova Delhi gran parte dei 100 miliardi di dollari entro il 2025 stanziati dai Venti per favorire la riconversione verde delle economie vulnerabili – e della Cina, il maggior paese inquinatore del mondo (quasi il 28% del totale di emissioni di Co2), affinché adotti un impegno per la neutralità carbonica in linea con l’obiettivo di 1,5°C. e rinunci alla data del 2060 per raggiungere la neutralità climatica (obiettivo, quello del 2060, previsto anche dalla Russia di Putin, che nel frattempo ha annunciato l’ingresso in alcuni paesi europei del gas raccolto nelle depositi di Gazprom); si cercherà di si tenterà di far prevalere la linea dell’UE – spalleggiata dagli USA di Joe Biden – , che è sulla buona strada per diventare il continente climaticamente neutrale entro il 2050.
I soldi che possono fare la differenza

La questione ovviamente non è sul desiderio di essere più o meno “green”, quando dei soldi da investire nella transizione energetica capace di tenere sotto controllo i violenti e drammatici effetti del cambiamento climatico, effetti che sono sotto gli occhi di tutti. I soldi che ogni Paese è disposto a spendere fanno la differenza. I Paesi sviluppati hanno promesso di aiutare i Paesi vulnerabili con il finanziamento di 100 miliardi di dollari l’anno sino al 2025, ma ci sono a breve 20 miliardi almeno da recuperare per sostenere anche i Paesi più poveri, non attrezzati a mettere su strutture e norme tali da abbattere le emissioni di Co2. E la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen rincara la dose parlando di un budget di 100mila dollari all’anno da consegnare ai paesi più vulnerabili non entro il 2023, bensì entro il 2022, promettendo altri 5 miliardi entro il 2027: «Mi aspetto che anche altri aumentino le loro ambizioni», ha detto.
Gli Stati Uniti sostengono la “linea von der Leyen” e dal canto loro rilanciano sul fronte investimenti per la neutralità climatica: 555 miliardi di dollari solo per la tutela del clima, il più grande investimento mai realizzato dagli States di Biden per la economia delle energie pulite; un cambio di rotta radicale dopo la politica pro lobbies delle fonti fossili di Trump, che va a braccetto con l’annuncio della riduzione dei gas serra entro il 2030 di oltre un miliardo di tonnellate. Ma è anche un cambio di rotta dettato dalla perdita di credibilità in tutto in mondo dopo la disastrosa uscita delle truppe americane dall’Afghanistan.
Un pranzo difficile da digerire
L’Italia gioca un ruolo chiave in questo vertice romano. All’Italia, co-organizzatrice insieme all’Inghilterra delle conferenze di queste settimane, spetta il compito di mediare tra le istanze dei Paesi che reclamano aiuti per investire sulla transizione verde, stringere accordi diplomatici che vanno oltre lo specifico del summit, rafforzare alleanze già consolidate. In questa situazione complicata. Il rischio è che l’”antipasto” romano risulti un preoccupante presagio del “pranzo” di Glasgow, dove le pietanze potrebbero risultare irrimediabilmente “bruciate” da temperature oltre i limiti.