
Torna in scena al Van Westerhout, Mola di Bari la storia di Mimì, dalla scrittura di Mario Desiati alla voce di Giusy Frallonardo e alla musica dei Radicanto, dove si parla anche dei morti do mesotelioma pleurico a causa dell’amianto. Nostra intervista alla protagonista della pièce
Arriva a Mola di Bari, nel Teatro Van Westerhout, oggi 31 marzo alle 21.00, Ternitti. Storia d’amore e di riscatto, lo spettacolo tratto dal romanzo con cui Mario Desiati arrivò in finale al Premio Strega 2011, diretto da Enrico Romita e prodotto da Aleph Theatre e Radicanto con il sostegno di TRAC, Centro di Residenza Teatrale Pugliese.
Attraverso la drammaturgia di Giusy Frallonardo, Nicoletta Robello Bracciforti e Paolo Russo e con una ballata di Mario Desiati, la pièce racconta la storia dei “sacrificabili” del Capo di Leuca, degli uomini che da soli o con le loro famiglie, sono emigrati nelle fabbriche oltreconfine tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. “Ternitti” è anche e soprattutto una storia d’amore e di riscatto in cui le donne, prima fra tutte la protagonista, fanno da controcanto poetico a un mondo che non riesce a trovare nella modernità la possibilità di affrancarsi dal dolore. Ma è anche una storia dalla forte valenza sociale, per porta in primo piano la assoluta mancanza di prevenzione nel trattamento di un materiale, l’amianto, che tante morti ha causato, soprattutto in Puglia.
A dare voce all’operaia 50enne Domenica Orlando detta Mimì, è Giusy Frallonardo, che ne ripercorre le tappe salienti della vita, dall’emigrazione in Svizzera al ritorno in patria, sempre in prima fila contro i soprusi, sempre a testa alta e sempre in dialogo, sfoghi e confidenze con la figlia Arianna e la sua amica Teresa, interpretate rispettivamente dall’esordiente Magda Marrone e dalla la cantante/attrice dei Radicanto Maria Giaquinto, anch’essi in scena. In primo piano anche la terra di Puglia il Sud, lo strappo dell’emigrazione e la lingua madre salentina con i suoi suoni ripresi anche nella musica dal vivo interpretata dai Radicanto.
Giusy Frallonardo, una vita al servizio dell’Arte
Barese, una solida formazione teatrale alla scuola di Vittorio Gassman ed esperienze cinematografiche con vari registi tra cui Marco Bellocchio, Giusy Frallonardo sta vivendo una stagione d’ oro in Rai. L’abbiamo vista nei panni del magistrato nella serie La porta rossa e della professoressa che contribuisce a sbrogliare la drammatica vicenda in Sei donne – il segreto di Leila e a breve la rivedremo come protagonista di un episodio de Il maresciallo Fenoglio, la nuova fiction con Alessio Boni tratta dai romanzi di Gianrico Carofiglio. Ora questa esperienza teatrale con cui Giusy Frallonardo torna al suo primo amore. L’abbiamo intervistata.
“Il teatro per parlare di cose scomode”
Come le è venuto in mente di scrivere un testo teatrale come Ternitti, che porta in scena anche un tema così drammatico come le morti per amianto?

L’idea di portare in scena Ternitti mi è venuta in mente appena ho letto il libro, che trovavo meraviglioso, come tutta la scrittura di Desiati. Avevo da poco lavorato su “Giorni Scontati”, una pièce che parla di quattro donne detenute e quello spettacolo mi aveva fatto capire, se mai ce ne fosse ulteriore bisogno, la necessità di parlare di cose scomode in teatro, un luogo dove tutto è possibile perché non c’è mediazione ma solo i corpi e le anime che si confrontano. Ternitti mi sembrava urgente perché noi abbiamo memoria corta e ci siamo dimenticati di quando gli emigranti eravamo noi ma soprattutto perché, ancora oggi, continuiamo a barattare la vita con un posto di lavoro, come se fossimo incoscienti di quanto male facciamo al nostro pianeta e al nostro corpo. Poi il progetto è stato accantonato perché non si erano create le condizioni, ma quando in una intervista al TG2 ho sentito il signor Schmidheiny, patron dell’Eternit, già condannato in un primo processo a 18 anni non scontati per sopraggiunta prescrizione, che sosteneva che non avrebbe trascorso un solo giorno nelle carceri italiane nemmeno dopo il secondo processo che era in corso, ho pensato che fosse davvero giunto il momento di riaccendere i riflettori su Ternitti.
Amianto come metafora dello sfruttamento sul lavoro: come è riuscita a conciliare questi due aspetti?
Nessuno degli autori della drammaturgia ha fatto nulla per conciliare i due aspetti, vanno di pari passo indipendentemente da noi. Se avesse visto le foto di quelle fabbriche in Svizzera, ma anche in Italia e gli operai che lavoravano seminudi in un luogo dove la polvere di amianto volava libera, avrebbe immediatamente compreso che erano per forza sfruttati. Soprattutto perché già nel 1931 era stata riconosciuta la pericolosità di alcuni tipi di amianto e nel 1943 la Germania aveva pensato di bandire la produzione di amianto proprio perché pericolosa. Chi gestiva le fabbriche sapeva bene che quegli operai erano a rischio asbestosi, ma si è focalizzata solo sul profitto di un materiale che sembrava “eterno”
“Dovremmo batterci per per quello per cui si batte Mimì”
Il suo personaggio di Mimì quanto le somiglia?
Purtroppo molto poco! Mimì ha una forza e un coraggio che non mi riconosco, una tenacia rara. Per fortuna anche una propensione alla tenerezza e alla poesia e questo mi è più familiare. Mimì è una donna che vuole vivere la sua vita fino in fondo incurante delle maldicenze, che concilia la sfrontatezza della sua emancipazione con una attitudine al mistero propria di alcune persone molto sensuali e un’adesione alla magia di alcuni riti propria di alcune donne del profondo sud, propriamente salentine, perché solo in loro ho visto questo legame ancestrale con la terra e la ritualità che ne consegue.
La lotta sindacale di Mimì acquista una valenza etica: su quali elementi ha puntato per dare questo taglio alla vicenda e al suo personaggio?
La lotta sindacale di Mimì rimarca, da un altro punto di vista, la necessità di battersi per un lavoro dignitoso, che non imponga a nessuna persona di barattare né la sua salute, né la sua condizione economica e di vita. La delocalizzazione è diventata una pratica diffusa perché vantaggiosa per alcuni imprenditori, ma se la popolazione attiva non lavora, su quale mercato incideranno quei prodotti? Certo la globalizzazione ha aperto le frontiere ma noi, tutti, imprenditori compresi, dovremmo batterci per quello per cui si batte Mimì: la possibilità di lavorare nella propria terra, accanto alle persone che amiamo, a un giusto compenso. Lei trova proprio nella solidarietà con le sue colleghe la spinta necessaria per lottare.
Mimì non abbandona mai le sue radici, nemmeno linguistiche: ma parlare in salentino, imparare l’intercalare senza sembrare caricaturale per Giusy è stato difficile?

Un’impresa! Ma ho avuto ottimi compagni di lavoro. Paolo Russo è stato un coach attento e poi la lingua salentina mi ha stregato. È così musicale, così poetica, sembra di cantare. I Radicanto, che sono in scena e suonano e cantano dal vivo, sono stati altrettanto preziosi per la costruzione di questo che, anche se è uno spettacolo teatrale, si configura come una lunga ballata. Giuseppe de Trizio ha curato gli arrangiamenti in modo che diventassero un corpo unico con il testo e questa è la vera forza dello spettacolo.
Che dice Mario Desiati di questa trasposizione teatrale?
Mario alla prima era commosso e credo sia stato davvero contento perché mi ha detto che il personaggio di Mimì, al quale è molto legato è venuto fuori con prepotenza e sensualità. Ma dovreste chiedere a lui più che a me cosa ne pensa.
Chi sono i “sacrificabili”?
Cosa c’è nel suo futuro professionale?
Intanto vorrei portare questo spettacolo in tutta Italia perché i “sacrificabili”, ovvero quelle persone che lavorano senza diritti, purtroppo sono ovunque e, incredibilmente, sono sempre di più e sempre più giovani. E poi perché bisogna mettere davvero un riflettore sui problemi ambientali. Gli scienziati continuano a sollecitarci ma noi non abbiamo orecchi per questioni esposte razionalmente, allora forse il teatro, che ha una potente carica emotiva, può fornire una chiave di lettura più utile per occuparsi dell’ambiente.
Poi ho altri due spettacoli in scena con compagni di viaggio che mi sono molto cari e penso a “Una famiglia” di Claudia Lerro, che trovo sia un altro di quegli spettacoli necessari oggi, e “Stupor” di Gianpiero Francese su Federico II. Naturalmente mi occuperò ancora (e sempre) di quella che è la mia creatura più amata, Hell in the cave, che va in scena da 12 anni nelle Grotte di Castellana e che è casa, vita, famiglia, tutto per me e per Enrico Romita che lo abbiamo concepito insieme a tanti artisti e operatori culturali. Naturalmente ci sono anche gli impegni di set: ho appena finito di girare due nuove serie che vedranno la luce il prossimo autunno sulle reti Rai di cui non posso fornire dettagli.
Si trova più a teatro o davanti la macchina da presa? Le piace essere riconosciuta più come attrice di teatro o di fiction televisive?
A me piace raccontare storie e personaggi innanzitutto. Mi piace provare e far provare emozioni. La macchina da presa ti scava nel profondo e sei completamente in sua balia, quindi in realtà hai poco controllo di quel che accade, è il regista (insieme al montatore) che ha il controllo. In teatro l’attore fa lo spettacolo, l’attore è davanti al pubblico senza nessun filtro, attore e spettatore sono parti in gioco, non esistono se non in quel momento. Sono come amanti. Secondo lei cosa preferisco?
Quanto alla riconoscibilità è scontato che quella mediatica (film o fiction ha poca importanza) è molto più virale, il teatro è quasi uno spazio privato, pensi uno spazio privato dove si consuma un rito collettivo: un vero privilegio.