Taranto e il siderurgico, una storia che parte da lontano

Intervista allo storico Salvatore Romeo: ” Il tema è come trasformare lo stabilimento e al tempo stesso avviare investimenti che riducano la dipendenza del territorio da quella fonte di occupazione e di reddito”

Salvatore Romeo è un giovane storico tarantino, da sempre interessato alla storia della siderurgia italiana e, più in generale, alla storia dell’industria e dell’ambiente. Il suo percorso di studi lo ha portato a prestigiose collaborazioni con diverse università italiane. Fondatore dell’associazione di public history “Fucina 900”, è autore di numerose pubblicazioni. Il suo ultimo volume “L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 ad oggi” (Donzelli, 2019) ricostruisce il rapporto fra Taranto e il siderurgico per capire come si sia giunti a una delle più gravi crisi industriali e sociali d’Europa. Ambient&Ambienti lo ha intervistato per conoscere la sua opinione sul futuro di Taranto.

“Taranto città industriale già da fine ’800”

Perché Taranto si è sviluppata nell’unica direzione della “cultura dell’acciaio”?

arsenale militare di Taranto
L’arsenale militare di Taranto

«Dobbiamo anzitutto dire cosa era Taranto prima che arrivasse il siderurgico. Taranto era già una città industriale dalla fine dell’800, che però nel secondo dopoguerra stava attraversando una drammatica crisi economica. Gli stabilimenti più importanti, cioè l’Arsenale militare e i Cantieri navali, erano ormai un’ombra rispetto al passato. L’Italia aveva perso la guerra, e tutta la produzione bellica, inclusa quella navalmeccanica, era stata fortemente ridimensionata. Ma oltre alla crisi economica Taranto subiva una crisi di identità, perché nella prima metà del ‘900 la città si era fortemente identificata con il paradigma della città navale e militare: basta fare una passeggiata sul Lungomare per vedere quanto il Fascismo avesse investito su Taranto in termini di rappresentazione monumentale, con un’operazione ancora più visibile rispetto a Bari. Taranto era la sede della flotta militare italiana, e veniva immaginata come la nuova capitale marinara dopo le quattro repubbliche marinare del passato. Tutto questo crolla con la fine della guerra.»

La scelta del Siderurgico è stata allora una scelta voluta anche se obbligata?

«Taranto negli anni ’50 si trova ad essere una città sostanzialmente allo sbando, senza prospettive, con gravissimi fenomeni di disoccupazione e di emigrazione di massa. Per cui quando si comincia a delineare la possibilità di insediare un nuova grande fabbrica tutti  i settori della comunità locale si mobilitano per favorire tale esito. L’installazione del polo siderurgico è stata fortemente voluta da tutta la comunità tarantina: dal mondo cattolico – con la DC, che all’epoca era il partito egemone,  e la Curia – alle sinistre, tutti si battono per il siderurgico.»

“Ricucire il rapporto tra percezione e realtà”

Oggi Taranto vive una profondissima situazione di disagio, sofferenza, crisi. Tenendo presente questa situazione di fondo, è possibile chiudere completamente il polo siderurgico? E quale è l’umore della comunità tarantina di fronte a questo cambiamento che si prospetta inevitabile?

Salvatore Romeo
Lo storico Salvatore Romeo

«Dobbiamo partire distinguendo due piani: un piano della realtà oggettiva e un piano della percezione soggettiva.  Sul piano della realtà oggettiva, se guardiamo i dati ambientali che ci vengono forniti da istituzioni come Arpa, non possiamo non notare che la situazione è nettamente migliorata rispetto agli anni dei Riva, e per una serie di ragioni: non solo perché la produzione si è ridotta, ma anche perché gli impianti sono gestiti in maniera più oculata.  Basti fare il confronto tra i dati del 2009 e quelli di 10 anni dopo. Nel 2009 c’era una concentrazione di benzo(a)pirene nel quartiere Tamburi che superava abbondantemente il valore obiettivo sancito dalla legge (1 nanogrammo per metro cubo). Nel 2018, con gli stessi livelli di produzione, eravamo a 0,1 nanogrammi per metro cubo. Di conseguenza, c’è stata una riduzione del livello di pericolosità delle emissioni. Questo è il dato oggettivo. La questione sanitaria è diversa, perché le malattie hanno un periodo di incubazione relativamente lungo, quindi secondo i medici non siamo ancora arrivati al picco ma in ogni caso, se c’è una correlazione tra inquinamento e situazione sanitaria, prevedibilmente la situazione non potrà che migliorare in futuro anche dal punto di vista sanitario.

Poi c’è il piano della percezione soggettiva. A Taranto e dintorni è radicata la credenza che non sia cambiato sostanzialmente nulla rispetto al passato in termini di inquinamento e rischio sanitario. Così non è, e dubito tornerà ad essere, perché anni di mobilitazioni hanno prodotto risultati evidenti: siamo una delle città più monitorate d’Europa sul piano ambientale e sanitario! Da storico posso dirlo: fino a quindici anni fa Arpa era un “guscio vuoto”, gli studi chimici ed epidemiologici su Taranto erano tutti episodici, e si contavano al massimo sulle dita di due mani. Oggi abbiamo indagini continue e sistematiche, istituzioni operative. Non dobbiamo mai dimenticare questi dati, perché rischieremmo di sottovalutare le conquiste che, con grande fatica, la società civile – a partire dal movimento ambientalista – ha ottenuto.

Ora, questa frattura tra percezione e realtà pone ovviamente dei problemi molto seri, problemi che sono anzitutto politici. L’unica soluzione, accettando la percezione prevalente, sarebbe  la chiusura dello stabilimento, perché l’adozione di soluzioni intermedie viene comunque ritenuta insufficiente. Ma si sottovalutano drammaticamente le conseguenze sociali ed economiche – e persino sanitarie perché, non dimentichiamolo, la povertà è un fattore di rischio per numerose patologie – di quell’opzione.

Quindi il problema politico serio è questo: fin quando non si ricuce il rapporto tra percezione e realtà sarà molto difficile per la comunità tarantina immaginare un percorso concreto di trasformazione.»

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Taranto come Bagnoli?

Quale potrebbe essere la strategia per il futuro e procedere verso una transizione che sia il meno dolorosa possibile?

duisburg riconversione impianti siderurgici
“Tigre e tartaruga, montagna magica”, la scultura nell’Angerpark, a sud di Duisburg, realizzata in acciaio e zinco

«Se lo stabilimento dovesse chiudere inevitabilmente per Taranto sarebbe un trauma estremamente doloroso, per certi versi anche peggiore di quello che visse negli anni ’50. Mi pare che questa consapevolezza manchi in alcuni. Si fanno a volte discorsi un po’ troppo semplicistici: parlare delle bonifiche, delle alternative va bene, ma queste operazioni richiedono tempi lunghi, tante risorse, un’elevata capacità di programmazione – e quindi un’amministrazione pubblica particolarmente efficiente, lungimirante, in grado di progettare a lunga scadenza. Non possiamo dare per scontati tutti questi fattori, tanto più perché siamo in Italia, un paese in declino economico. Non è affatto detto che, chiusa l’Ilva, si attivino una serie di economie che consentano a questo territorio di ripartire; anzi, più verosimilmente ci troveremmo in una situazione simile a quella di Bagnoli o di altre città industriali che hanno vissuto in maniera traumatica la chiusura di grandi stabilimenti.

Detto questo, resta da individuare una soluzione intermedia: il tema è come trasformare lo stabilimento e, contemporaneamente, avviare investimenti che riducano la dipendenza del territorio da quella fonte di occupazione e di reddito.»

Taranto come Duisburg?

Quindi uno smantellamento graduale nel tempo?

«Io credo si debba capire anzitutto cosa fare qui ed ora, in maniera molto concreta. Attualmente è in corso una trattativa tra Arcelor Mittal e il governo, e penso che al centro di questo confronto debba esserci il tema di come rendere il siderurgico compatibile con la città: ci sono degli strumenti normativi, tecnico-scientifici per fare tutto questo – penso soprattutto alla valutazione preventiva del danno sanitario. In parte il governo sta andando in questa direzione, e credo che la società civile debba spingere perché Taranto abbia uno stabilimento non nocivo, come succede in tutta Europa e nelle aree più avanzate del mondo. Oggi il progresso tecnico e l’esperienza di altri paesi ci mettono a disposizione soluzioni che quarant’anni fa erano inimmaginabili: non vedo per quale ragione non le si possa adottare anche a Taranto

Si può pensare a una riconversione come è stato nel bacino della Rhur?

«In qualche modo sì. Nel mio libro (L’acciaio in fumo, n.d.r.) faccio un esempio molto preciso, che è quello dello stabilimento di Duisburg, ubicato nel cuore nella Rhur. In quell’area sono state portate a termine diverse operazioni: alcuni stabilimenti sono stati chiusi e trasformati in enormi parchi; altri, invece, continuano ad operare, ma con tecnologie all’avanguardia sul piano ambientale. Tutto questo è stato fatto quasi vent’anni fa, nello stesso periodo in cui a Taranto si facevano investimenti molto meno incisivi. In Germania il problema ambientale legato alla siderurgia è stato affrontato in maniera radicale, e quasi del tutto risolto. Dobbiamo dire però che lì hanno agito a tutti i livelli – locale, regionale e nazionale – dei governi fortemente motivati a portare a compimento questa trasformazione, e questi hanno incontrato la disponibilità di imprese che hanno capito che l’innovazione tecnica è un’opportunità anzitutto per loro. Senza queste condizioni non si va molto lontano.Ð

(n.b.: le frasi in grassetto sono a cura della redazione)

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