
Al Politecnico di Bari, l’amianto viene eliminato con gli scarti alimentari ed il siero del latte.
Il pericolo delle polveri di amianto è reale ed è ampiamente documentato. Era già noto quando iniziò la sua diffusione ma i suoi bassi costi, la sua praticità e la sua versatilità hanno avuto il sopravvento.
Ma oggi, i tempi sono cambiati. La coscienza ambientalistica, la ricerca e la gran quantità di amianto da stoccare lo hanno trasformato da soluzione economica a problema costoso. Nuovi prodotti ecosostenibili stanno sostituendo l’amianto, alto materiale inquinante che deve essere smaltito con precise accortezze, sia per gli operatori e sia per l’ambiente.
Oggi lo smaltimento avviene in discariche specializzate che raccolgono ed accatastano l’amianto in sacchi sigillati, per evitare che le intemperie possano corrodere la struttura ed inquinare.
La ricerca ha però proposto un’alternativa alla discarica. Ne abbiamo parlato con il dott. Danilo Spasiano, ricercatore a tempo determinato di tipo B al Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale, del Territorio, Edile e di Chimica (DICATECh) del Politecnico di Bari. Spasiano, che fa ricerca nei settori dell’ingegneria sanitaria e ambientale, da alcuni mesi, si occupa di un trattamento degli scarti di cemento-amianto utilizzando processi biologici e idrotermali.
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Dott. Spasiano, tempo fa abbiamo parlato di Prebox, il brevetto di un imprenditore bresciano per stoccare l’amianto. Cosa pensa di questo sistema e se è più valido rispetto agli altri attualmente disponibili.
«Prebox è un’opzione valida che permette di conservare a lungo questi rifiuti, finché non ci sarà una tecnologia che permetterà di trattarli. Questo sarcofago in cemento armato protegge dalle intemperie il suo contenuto. Il problema è che il quantitativo di rifiuti contenenti amianto è molto elevato; ne consegue che il volume delle discariche deve essere enorme. Questa misura potrebbe risolvere il problema ma è necessario al più presto trovare quel trattamento futuro al quale si riferisce l’imprenditore bresciano».
Che tipo di soluzioni state valutando?

«Quando sono venuto a Bari dovevo occuparmi del trattamento di rifiuti agroalimentari nell’ottica di un’economia circolare. Da qui mi è venuta l’idea di utilizzare questi scarti biodegradabili per andare a trattare rifiuti contenenti amianto, in particolar modo quelli cementizi. Il nostro obiettivo è quello di distruggere fibra di amianto con un pretrattamento biologico. I microrganismi vanno a biodegradare i composti organici presenti negli scarti agroalimentari (abbiamo utilizzato il siero del latte ed il pastazzo di arance ovvero lo scarto delle bucce dopo le spremitura). In assenza di ossigeno, alcuni microrganismi sono in grado di degradare questi composti organici biodegradabili e trasformarli in acidi grassi volatili (acido acetico, butirrico e propionico) e biogas (idrogeno e CO2). L’idrogeno lo conserviamo come forma di energia, mentre questi acidi organici vanno a dissolvere la matrice cementizia in cui è contenuto l’amianto (per esempio tubi in cemento ed amianto o eternit). Dopo aver dissolto il cemento, questi acidi cominciano ad attaccare la fibra di amianto. Noi abbiamo prevalentemente lavorato con rifiuti di cemento amianto contenente crisotilo, il cosiddetto amianto bianco, il più usato tuttora in alcune zone del mondo. Al termine di questa fase biologica, ne prevediamo una seconda che è idrotermica. Praticamente portiamo il volume della soluzione intorno ai 100 °C, aggiungendo un altro piccolo quantitativo di acidi per assicurarci di aver cancellato tutte le fibre di amianto. C’è poi un’ultima parte biologica dove gli acidi organici che erano stati prodotti nel primo passaggio vengono convertiti sempre da microrganismi in metano e CO2. Il metano prodotto nell’ultimo step e l’idrogeno prodotto nel primo step possono essere utilizzati nello step intermedio, quello idrotermico, per abbassarne i costi energetici».
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Questo sistema, quindi, è un ciclo chiuso, a se stante…
«Certo. Con questa linea di trattamento non solo riutilizziamo gli scarti dell’industria agroalimentare, ma ritroviamo nei fanghi di scarto anche tantissima struvite. Si tratta di un minerale composto da fosfati, magnesio ed ammonio. Fosfati ed ammonio sono fonti di nutrienti delle piante. Per questa ragione è importante usare i fanghi come concime per l’agricoltura. Il fosforo e l’azoto che si trovano nei fanghi di depurazione, con qualche pioggia penetrano nel terreno e finiscono nelle falde, inquinandole. Invece, il magnesio che deriva dalla dissoluzione della fibra di crisotilo permette di fissare azoto e fosforo in struvite che è un fertilizzante, un minerale poco solubile in acqua ed a lento rilascio di fosforo ed azoto. Se spargi questo fango, quindi, su un terreno hai un ottimo fertilizzante, nutriente ed a rilascio lento».
Questo processo potrà diventare a breve operativo?
«Me lo auguro. La ricerca non è finita. Al momento abbiamo utilizzato come substrato biodegradabile il glucosio, ma ne abbiamo un altro in fase di revisione, il siero del latte esausto. Andremo anche a vedere se si può utilizzare una membrana per separare il fango dall’acqua da utilizzare per svariati scopi. Stiamo anche provando a lavorare su una scala più grande per capire meglio i costi e la gestione dell’intero processo. Per lavorare su impianti scala pilota ci vogliono le autorizzazioni ministeriali. Ci sono problemi burocratici da risolvere. Non è facile, ma ci stiamo muovendo anche in questo senso».