
Accade in Indonesia. E riapre l’annosa questione dell’inquinamento dei mari, soprattutto della plastica negli oceani.

Tra le tante belle iniziative, manifestazioni, congressi e scoperte che mirano a migliorare la qualità ambientale del nostro pianeta, una notizia macchia tutti i buoni propositi e porta ad una profonda riflessione: in Indonesia è stato trovato un capodoglio morto con circa sei chili di plastica nello stomaco. Bicchieri e bottiglie, corde di nylon e sacchetti. Persino due infradito.
Nessun preambolo, solo il fatto, così, in maniera un po’ cruda ma fortemente diretta.
Plastica negli oceani: reazioni dallo Stato asiatico
La carcassa del cetaceo, già in un’iniziale fase di decomposizione, è stata trovata lungo la costa nel Parco nazionale di Wakatobi, all’interno dell’omonimo arcipelago di isole. L’esemplare ritrovato è mastodontico, lungo quasi nove metri e mezzo.

Subito intervenute le organizzazioni ambientaliste, con in testa il WWF Indonesia, che per bocca della sua principale esponente, Dwi Suprapti, fa sapere che non è ancora chiara l’origine della morte del capodoglio (potrebbe essere anche successo per altre ragioni), ma i sei chili ritrovati all’interno del suo corpo sono un dato di fatto chiaro e oggettivo di quello si trova negli oceani, della grande quantità di inquinamento che ormai sono di casa nei nostri mari.
Interpellato sull’argomento, anche il Ministro degli Affari Marittimi dello stato del Sud Est Asiatico Luhut Binsar Pandjaitan si è detto «triste per l’accaduto» e ha rilanciato dicendo che il Paese indonesiano si è posto l’obiettivo di ridurre del 70% il consumo e l’utilizzo della plastica entro il 2025, ed ha già avviato un programma educativo nelle scuole della Stato per sensibilizzare sul tema già dalla tenera età.
Plastica negli Oceani
Purtroppo non siamo di fronte alla prima storia di morte di una animale marino per mano della plastica. Lo scorso giugno è stato ritrovato un altro cetaceo in fase morente tra la Thailandia e la Malesia. Vani i tentativi di rianimazione dopo cinque giorni. A morte sopraggiunta sono stati rinvenuti quasi otto chili di plastica al suo interno.
Non è una coincidenza se questi racconti arrivano in particolare dall’Asia: l’Indonesia e la stessa Thailandia – guidati dalla Cina, sul poco onorevole primo gradino del podio – sono tra i principali produttori di inquinamento di plastica, specie quella monouso. Le discariche finiscono infatti per smaltire tonnellate e tonnellate di rifiuti, con una buona percentuale proprio nell’Oceano Indiano.
Malgrado sia stata persino indetta la Giornata mondiale degli Oceani, in cui si fa esplicito riferimento alla plastica – sempre il WWF ricorda che «la produzione mondiale di plastica è passata dai 15 milioni del 1964 agli oltre 310 milioni attuali […] e ad oggi si stima che vi siano più di 150 milioni di tonnellate di plastica».
Gli oceani e i mari invasi dalla plastica è tematica assai delicata e di ampio dibattito. Una delle fonti di inquinamento più importanti della nostra epoca.
Di non facile risoluzione, ma di certo un impegno che individualmente va preso con seria coscienza. Altrimenti il capodoglio ritrovato in Indonesia non sarà l’ultima vittima di questo male di matrice umana.