Papa Francesco: il testimone

Il Pontefice è il profeta che intravede nell’attuale crisi planetaria che la pandemia da coronavirus ha scatenato, le risorse per una nuova spiritualità religiosa o anche laica

(foto Vincenzo Pinto- AFP)

E’ ormai innegabile: Papa Francesco non è soltanto il capo spirituale dei cattolici, ma per tutti – credenti in qualsiasi religione, agnostici o atei – è il testimone per eccellenza del tempo e dello spazio in cui si manifesta la globalizzazione, con i suoi punti di forza e le infinite fragilità e contraddizioni.
Credo che nessuno potrà scordare, anche a distanza di anni, le istantanee che lo raffigurano mentre cammina, affaticato e solo, sotto la pioggia in piazza San Pietro per invocare a nome di tutti e per tutti una salvezza che non significa soltanto la fine della pandemia, ma un cambiamento complessivo dell’orizzonte comune in cui tutta l’umanità possa riconoscersi a partire da oggi. E forse soltanto pochi potranno trascurare, nella memoria collettiva che speriamo resti viva nel futuro, la straordinaria pagina del Vangelo da cui è scaturita la sua preghiera universale: quella della tempesta che improvvisamente si alza sulle acque del lago di Genezareth, suscitando paura, disorientamento, paralisi. Perché è proprio questa narrazione evangelica che ci fa comprendere davvero il senso e il valore della preghiera del Papa.

Siamo tutti nella stessa barca

Non poteva esserci espressione più sintetica e inequivocabile per inchiodare ciascuno alla sua responsabilità in quest’ora difficile per tutto il mondo.

Rembrandt, La Tempesta Sedata

Se pensiamo a tutti quelli che continuano ad agire come se nulla fosse accaduto, nella trama quotidiana della vita personale come nei consessi istituzionali internazionali, comprendiamo subito che Francesco proprio non ci sta a restare spettatore di una globalizzazione in cui ancora resistono interessi ed egoismi di parte, miopie e sordità occultate dalla diplomazia e dai rapporti di forza che separano società fragili ed economie forti, indicando confini e frontiere che si presumono invalicabili.

Ai suoi occhi è evidente, sul piano teologico, che nessuno può salvarsi da solo, ma è altrettanto vero, da un punto di vista antropologico, che in troppi abbiamo finora creduto al paradosso di essere e poter comunque restare sani in un mondo che è gravemente malato. La globalizzazione a cui pensa e in cui crede il Papa, è invece quella della comune appartenenza alla terra, della comunione e solidarietà fra i popoli. Ed è significativo, in questa sua riflessione, l’invito a rispettare in modo puntuale le indicazioni provenienti dai responsabili della cosa pubblica, che non ignora la laicità dello Stato e la separazione fra sacro e profano, ma vuole contribuire a stabilire una relazione leale fra governanti e governati, uniti nella ricerca del bene comune e della sicurezza.

Con lo sguardo del cuore per vedere i poveri invisibili e per ascoltare il grido della fame

Sarebbe ingenuo pensare che prima del coronavirus tutto procedesse per il meglio, ma ora proprio non può più essere ignorata la situazione pandemica di crisi, con il suo carico di ingiustizie, di differenze socioeconomiche che producono emarginazione, di disperazione e solitudine che affliggono gli ultimi, le vite di scarto. Si è superato il limite di guardia, quello in cui la fame diventa così grave da trasformare la paura e il disagio in rabbia e violenza.
Fino ad oggi abbiamo voluto pensare che il valore della prossimità potesse essere tenuto in poco conto, lasciandoci sedurre dall’illusione ottica generata dalle distanze geografiche, politiche, culturali. In questo momento – ma non è certamente la prima volta – la globalizzazione ci dice in modo inequivocabile che vicino e lontano sono stereotipi ormai vecchi e inutilizzabili. Tutto ci riguarda, che ci piaccia o no, soprattutto quei fenomeni che sono condannati all’invisibilità dal torpore delle nostre coscienze, che il Papa sta cercando di risvegliare. Se non vogliamo che il dolore del mondo si abbatta sulla nostra testa implacabilmente.
E a poco servono le polemiche pretestuose di chi chiede se e come la Chiesa sta contribuendo a finanziare l’aiuto economico per le emergenze. Se qualcuno ha questa curiosità, può trovare dati precisi su Internet che riguardano il Vaticano e la CEI, però è evidente che non è questione di soldi, ma di vicinanza, sollecitudine, attenzione. Quella del “mitico” elemosiniere del Papa, che ogni giorno macina passi e corre da una parte all’altra per soccorrere tutti quelli che hanno dei bisogni, senza chiedersi nulla sulla loro identità sociale e religiosa; quella delle tante associazioni di volontariato che si spendono per alleviare le mille povertà del momento. O quella che ha orientato molte diocesi del nord ad offrire ospitalità al personale sanitario o a chi era in quarantena nelle proprie strutture; ha spinto alcuni preti e suore a tornare in corsia come medici per riprendere l’esercizio di una professione lasciata per abbracciare ben altra cura dell’altro; ha portato perfino i missionari anziani di qualche congregazione religiosa a scegliere di morire piuttosto che andare in ospedale ad occupare un posto in terapia intensiva che potesse invece assicurare la guarigione ad un giovane o ad un padre di famiglia.

Basta con le guerre. Costruiamo la pace

Foto Ansa/Reuters

È il grande sogno di Francesco e sicuramente ha guidato i suoi passi mentre attraversava piazza San Pietro, mentre pregava anche per quelli che professano altre fedi o che non vogliono avere nessun Dio nel proprio cielo, mentre faticosamente sollevava l’ostensorio per benedire urbi et orbi ogni essere umano. È la speranza che ogni giorno lo accompagna nella celebrazione della messa a Santa Marta e in tutti gli interventi che condivide attraverso i social, declinata pazientemente e tenacemente in tutte le sue infinite sfumature.
Il Papa è motivato dall’ansia che in questo momento possa allontanarsi dall’attenzione internazionale la sofferenza dei popoli impegnati da troppi anni in conflitti che hanno seminato morte e distruzione; dalla paura che anche quei pochi corridoi umanitari che finora hanno garantito ai più fragili una possibilità di salvezza e di approdo sicuro possano venir chiusi sine die; dal bisogno che ci siano segni concreti di una restituita e condivisa fratellanza. Da questo deriva anche la sua sollecitazione affinché le religioni continuino a dialogare e cooperare per andare incontro alle necessità di tutti e per realizzare un ecumenismo non di facciata.

Per una ecologia integrale contro i mali della globalizzazione

Ma soprattutto, Francesco esprime il desiderio che pace significhi gratitudine verso tutti coloro che si stanno spendendo per assistere, curare, guarire i malati; per ascoltare, consolare, sostenere le famiglie invase dal dolore della malattia e dai lutti; per aiutare chi vive nella precarietà e orientare chi è spaesato. Ci ricorda, così, che l’esperienza di appartenenza alle nostre comunità coincide inevitabilmente con i principi di responsabilità e sussidiarietà su cui poggia tutto il suo Magistero sull’ecologia integrale, unica risposta ai mali della globalizzazione. Come ha affermato lo storico israeliano Yubal Noah Harar, “Se scegliamo la solidarietà globale, sarà una vittoria non solo contro il coronavirus, ma contro tutte le future epidemie e crisi che potrebbero assalire l’umanità nel ventunesimo secolo”.

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