Lo scorso 1° agosto la Regione Veneto, con delibera consigliare n.105 1, ha deciso di presentare alle Camere una proposta di legge per vietare la prospezione 2, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi nelle acque dell’Adriatico, prospicienti le Regioni Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna, Marche, Abruzzo, Molise e Puglia, coinvolgendo queste ultime nella presentazione di una proposta affine.
L’iniziativa è volta a proteggere l’inestimabile valore dell’ “oro blu”, cioè del mare, messo a repentaglio dalla crescente e spasmodica ricerca dell’ “oro nero”, il petrolio, nei nostri mari. La Regione Veneto, dunque, muovendo dai dossier di Legambiente e WWF in materia, ha esercitato la propria potestà, ex art. 121, 2°c., Cost. 3 al fine di sensibilizzare il legislatore al diritto irrinunciabile della salute del Mar Adriatico.
Punti della proposta. La Regione Veneto chiede l’assoluto divieto di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi nelle acque dell’Adriatico, prospicenti le Regioni su indicate, nonché l’estensione di detto divieto anche ai procedimenti autorizzatori avviati e non conclusi alla data di entrata in vigore della legge, fatti salvi i permessi e le autorizzazioni già accordati, fino all’esaurimento dei relativi giacimenti.
Dette richieste trovano un forte punto di riferimento normativo nella L.n. 134 del 07/08/2012 4, di conversione del Dl. 83/2012 (Dl. “Crescita”) 4, recante disposizioni urgenti per la crescita del Paese, tra cui norme in materia di energia. A tal proposito, la legge citata modifica il comma 17 dell’art.6 del Dlgs 152/2006 (T.U.A.) 5, il quale, disponendo in tema di VAS (Valutazione Ambientale Strategica) sui programmi di impatto ambientale, stabilisce che, ai fini di protezione dell’ecosistema marino, sono vietate le attività di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi, nel perimetro delle aree marine e costiere protette dalla legge, a qualsiasi titolo, per scopi ambientali. Il nuovo comma 17, risulta ancor più rigido perché vieta le attività relative a olio e gas, se effettuate nelle zone di mare comprese entro le 12 miglia dalle linee di costa, lungo l’intero perimetro costiero nazionale. Mentre prima il limite era di 5 miglia di distanza. Sono fatte salve le attività già autorizzate e finalizzate a migliorare le prestazioni degli impianti di coltivazione e sono ammesse anche le trivellazioni, solo se effettuate a fronte di opere esistenti, secondo i limiti di produzione ed emissioni previsti da programmi già approvati. Dette autorizzazioni devono essere rilasciate dall’Ufficio Nazionale Minerario per gli idrocarburi e la geotermia.
È evidente, dunque, che la Regione Veneto, forte di una normativa chiaramente volta a proteggere dalle trivellazioni tutte quelle aree marine non ancora completamente danneggiate, abbia voluto preservare l’Adriatico dal rischio di eventuali catastrofi ambientali. A tal proposito, infatti, nella proposta è citata la catastrofe che ha colpito il Golfo del Messico, provocata dalla fuoriuscita di petrolio, per un guasto di una piattaforma della British Petroleum. Inoltre nel documento si evidenzia che nel medio-alto Adriatico vi sono più di 50 piattaforme operative, dalle quali deriverebbe il pericolo concreto di seri danni ambientali: danni provocati dai fanghi tossici sversati in mare con le trivellazioni (costituenti il 10% dell’inquinamento marino da idrocarburi) e danni da inquinamento, provocati dal transito continuo di natanti e navi-cisterna (vedi sversamento davanti alla costa di Otranto del 26 agosto scorso). Per di più l’Adriatico è un mare “chiuso”, quindi inadatto a smaltire tutte queste sostanze.