Moda e sostenibilità nell’era del Black Friday: perché dovremmo vestirci meno e meglio

Credits: Pexel

L’industria tessile è una delle più inquinanti dell’intero comparto produttivo

 

La maggior parte di noi, almeno una volta nella vita, ha sentito parlare di Shein o è entrato in un negozio H&M. Nomi che, nei giorni del Black Friday (la settimana dedicata agli sconti) diventano quasi un imperativo. Queste aziende crescono del segno del fast fashion o, nel caso di Shein, dell’ ultra fast fashion: l’e-commerce più noto al mondo è l’evoluzione dell’iperconsumismo digitale nel mondo della moda, caratterizzato dal flusso costante di nuovi prodotti, prezzi straordinariamente bassi e comunicazione martellante sui social.

Eppure, il marchio cinese si è trovata al centro di numerose questioni controverse, che vanno dall’impatto ambientale della produzione ai regimi di schiavitù a cui sono sottoposti i lavoratori. È, questo, uno dei temi più ricorrenti nel mondo della moda: come coniugare sostenibilità e accessibilità nel mondo della moda? Non bastano risposte come riciclaggio o uso di vintage (che non sempre è una scelta economicamente sostenibile), ma serve uno studio sistematico dell’impatto produttivo dei marchi, oltre all’innovazione scientifica per immaginare un nuovo modo di creare abiti. E questo perché l’industria tessile è una delle più inquinanti e, a parte il calo nel 2020 a causa del Covid, le vendite sono rimaste stabili negli ultimi dieci anni. Al contrario, da inizio millennio è diminuito del 36% il tempo di utilizzo dei capi, soprattutto quelli delle catene fast, che restano nel nostro armadio per nemmeno un anno. In definitiva, dovremmo acquistare meno e acquistare meglio, ma come possiamo definire questo “meglio”?

Vestirsi “meno e meglio”: perché?

Tra i report più recenti, c’è l’indagine di Altroconsumo  che misura la sostenibilità dei prodotti considerandone l’impatto lungo tutto il suo ciclo di vita, attraverso la metodologia standardizzata Life Cycle Assessment (LCA). Ogni tessuto viene studiato fin dalla sua origine, e cioè dagli allevamenti se parliamo di lana, dalle risorse agricole se parliamo di lino o cotone, dall’estrazione di petrolio, consumi energetici, emissioni e sostanze chimiche utilizzate per i tessuti sintetici (nylon, poliestere ecc.). Entrano poi in gioco filatura, tessitura, tintura, stampa, confezione, trasporto e distribuzione, lavaggio e stiro, smaltimento e riciclo. Di queste fasi, quella che più pesa sull’ambiente è la produzione (acquisizione delle materie prime, produzione dei tessuti e confezionamento dell’abito). È molto più impattante invece l’utilizzo dei capi che la loro distribuzione: il trasporto su gomma dalla Cina al porto, il viaggio in nave verso l’Europa e la distribuzione sul territorio italiano, nel complesso sono meno dannosi dei lavaggi dei vestiti, indossati in media 170 volte e lavati ogni tre utilizzi (motivo per cui il “made in” non necessariamente è una scelta green: il taglio dell’impatto è appena l’8%).

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Credits: Altroconsumo

Chi crede che i tessuti naturali registrino le miglior perfomance ambientali, sarà sorpreso dai risultati dell’indagine: dei 18 materiali presi in esame, quelli meno impattanti sono proprio i sintetici in termini di incidenza sul riscaldamento globale, grado di tossicità per l’uomo, consumo di suolo, uso di risorse non rinnovabili e consumo di acqua. Nello specifico, il più sostenibile è il nylon, con la sua possibilità di riciclaggio del 100%. Quella più dannosa per l’ambiente, invece, è la pelle naturale: per ottenere lo stesso risultato di sostenibilità del nylon, deve essere indossato 23 anni e 9 mesi in più. Incredibilmente, la LCA ricostruisce un quadro non favorevole per i materiali naturali. Seta, lana, cotone, denim, canvas, lino e canapa infliggono all’ambiente i danni maggiori: ad esempio, la seta deve essere usata 16 anni in più del nylon 100% riciclato per eguagliare la sua sostenibilità, mentre la lana 10 anni e 4 mesi in più (circa 439 volte).

Attenzione: questo non significa che dobbiamo fare uso esclusivo di nylon e poliestere e non comprare mai più lino e seta. Significa però essere più consapevoli sull’utilizzo che facciamo dei capi, utilizzati troppo poco per effetto del fast fashion. Se usassimo questi vestiti per quattro anni e non uno, il peso per l’ambiente diminuirebbe dal 268% al 130%. Secondo i dati della Commissione Europea, ogni anno in Europa 6 milioni di tonnellate di abiti finiscono in discarica.  In media, ogni cittadino butta via 11 kg di vestiti, scarpe e altri prodotti in tessuto.

Ad aiutarci a prendere consapevolezza esistono anche piattaforme digitali come la 4s Platform, uno strumento che traccia i dati sugli impatti ambientali e sociali dell’intera filiera produttiva partendo da: tracciabilità dei processi e monitoraggio della filiera, conversione all’uso di materiali a minore impatto per una produzione sostenibile, eliminazione delle sostanze chimiche tossiche e nocive dai cicli produttivi, crescita del benessere organizzativo, uso consapevole delle risorse per la riduzione dell’impatto ambientale, sviluppo delle pratiche di riuso, riciclo e design sostenibile.

Nuovi modelli di sostenibilità

Bella Hadid “indossa” il Fabrican

Negli ultimi anni, ci sono stati molti esempi di marchi in cui tecnologia e moda vanno di pari passo nel nome della sostenibilità ambientale. Tra i più recenti c’è il Fabrican, sfoggiato da (anzi, sarebbe il caso di dire su) Bella Hadid durante la Fashion Week parigina 2022. Il fabrican è un tessuto spray, nato dalla maestranza del dottor Manel Torres più di dieci anni fa. A portarlo sul palco sono stati Sébastien Meyer e Arnaud Vaillant, i fondatori di Coperni: le fibre di tessuto vengono spruzzate direttamente sul corpo e, intrecciandosi e aderendo tra loro, si asciugano all’aria diventando solide. A quel punto può essere modellato e tagliato. Viene prodotto in materiale sia naturale che sintetico, è lavabile ma può essere anche riciclato. In futuro, il tessuto spray sarà usato anche in ambito medico al posto di bendaggi o cerotti.

Ci sono poi esempi meno “fantascientifici”, come quello di Innbamboo, l’azienda toscana specializzata in moda e accessori in filato di bambù, o il brand Pangaia, che ha realizzato una linea sportiva con il filato Evo, ricavato dall’olio di ricino.

Tentativi di riconvertire materiali insoliti nel mondo della moda sono, in realtà, innumerevoli. Ma come i report su citati ci raccontano, la scelta dei marchi è una goccia nell’oceano che determina l’impatto ambientale del fashion. Un discorso che diventa ancora più vero nella settimana del Black Friday, come racconta un’analisi della società Quantis all’indomani della sua partecipazione alla Cop27 di Sharm El-Sheik.

Cosa comporta un acquisto online

Lo studio si concentra sull’analisi delle emissioni di gas serra per ogni acquisto di vestiti, scarpe e accessori online. La più dannosa è l’operazione di packaging di consegna, che determina il 75% delle emissioni di gas serra. Segue la logistica di spedizione e consegna con il 15% di emissioni, considerando una spedizione via strada entro un raggio medio di circa 480 km dal consumatore. Lo shopping online (la fase cioè di navigazione e di acquisto) ne genera invece il 7%.

C’è però una buona notizia: gli italiani sono sempre più consapevoli di cosa comporta l’e-commerce, tanto che, secondo le stime di BCG sul Black Friday del 25 novembre, i consumatori nostrani faranno attenzione alla sostenibilità dell’acquisto: il 57% degli intervistati farà più attenzione alla policy delle aziende in materia di protezione dell’ambiente, il 59% prediligerà l’acquisto da aziende locali per valorizzarne la filiera e le risorse umane, il 57% farà attenzione alla sostenibilità del packaging e il 54% comprerà più articoli con componenti riciclate. Ma, soprattutto, il 63% comprerà meno.

Quantis inoltre ha stilato un decalogo delle scelte che possono migliorare l’impatto ambientale dell’e-commerce:

  1. Investire in sistemi di packaging riutilizzabili
  2. Alleggerire il packaging
  3. mercatino usato -pexels
    Ho davvero bisogno di questo capo? O è la frenesia del Black Friday che mi spinge ad acquistarlo? Voglio davvero buttare questo capo? Potrei riutilizzarlo o regalarlo a qualcuno?(foto Pexels)

    Investire in sistemi di packaging con materiali 100% riciclati

  4. Privilegiare veicoli elettrici per spedizione e consegna last mile
  5. Alimentare i fulfillment center con energia rinnovabile
  6. Consegnare last mile con cargo bike
  7. Ottimizzare le dimensioni dei contenuti e degli elementi del sito web
  8. Incentivare modalità di consegna alternative più efficienti
  9. Ridurre il numero dei resi
  10. Promuovere la scelta di tempi di consegna più sostenibili

È vero: per migliorare il quadro c’è bisogno di una rivoluzione strutturale. Perciò, nel nostro piccolo, non faremo la rivoluzione ma sicuramente potremmo adottare comportamenti sani. Possiamo chiederci, ad esempio: ho davvero bisogno di questo capo? O è la frenesia del Black Friday che mi spinge ad acquistarlo? Voglio davvero buttare questo capo? Potrei riutilizzarlo o regalarlo a qualcuno? Poco a poco, un passo alla volta.

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