«Non si possono studiare gli animali nei musei, bisogna andare alla stessa velocità. Così abbiamo assunto il punto di vista delle creature marine». E per farlo, Jacques Perrin ha investito quattro anni di lavorazione, 58milioni di euro di budget e diciotto troupe con i migliori professionisti in riprese estreme. Il risultato è l’incanto di La vita negli oceani, realizzato con Jacques Cluzaud, in uscita nelle sale cinematografiche italiane, in coincidenza con la Giornata mondiale dell’Ambiente.
Non nuovo a lavori su questa tematica, Perrin ha alle spalle successi come Microcosmos e Il popolo migratore, in cui ha costruito avventure epiche tralasciando il significato scientifico e didattico ambientale, per lasciare spazio alle emozioni. La vita negli oceani (Oceans è il titolo originale) è un gradino oltre. Con metodi di ripresa inediti, tra i ghiacci polari e nei tropici, porta lo spettatore nel cuore del mare, con l’obiettivo di riscoprire le creature marine.Un film che prende le mosse dalla “semplice” domanda di un bambino: “L’oceano! Che cos’è l’oceano?”. Da questo interrogativo, parte il viaggio alla scoperta degli oceani e dei suoi abitanti che dalle banchine polari si spinge fino ai caldi mari tropicali passando per le Galapagos o le coste del Sud Africa. Non ci sono commenti didattici, solo poche riflessioni con la voce narrante che nella versione italiana è quella di Neri Marcorè. Il narratore principe, però, è il mare. Che si lascia scoprire senza l’ormai diffuso escamotage del 3D: l’invenzione di una strumentazione digitale all’avanguardia e diciotto troupe è sufficiente per far letteralmente “immergere” lo spettatore nelle acque più remote del pianeta.
La vita negli oceani è un po’ documentario e un po’ thriller, con l’attenzione riservata anche ai pericoli e i misteri di un territorio selvaggio, in cui vige la legge della sopravvivenza. Il film infatti non si limita a documentare la vita della fauna acquatica, ma garantisce scene ad alta tensione ed epiche battaglie, con lo sguardo sempre rispettoso della telecamera che stringe sui primi piani degli occhi delle creature marine che osservano incuriosite: paradossalmente, in alcuni momenti, non si capisce più “chi guarda chi”, come nella metafora finale dell’acquario.
Il film è stato girato come un lungometraggio di finzione, perché, come ha spiegato Perrin, «non c’è teleobiettivo non c’é zoom, ma solo grandangolo. Abbiamo costruito uno studio sulla superficie dell’acqua con carrelli, luci, telecamere. I delfini sono stati ripresi con una sorta di dolly attaccato ad un gommone: la telecamera era trainata da un cavo in fibra ottica». Per consultare le sale cinematografiche che proiettano il film, www.thespacecinema.it