È innegabile che ogni città porta con sé molto di artificiale, perché è stata in buona misura generata dalla pretesa di convogliare e imbrigliare le biografie individuali e dei gruppi entro criteri paradigmatici di organizzazione funzionale del territorio, corrispondenti a precisi, quanto impliciti bisogni e pretese del potere economico, politico, religioso di un particolare tempo storico. Ma è altrettanto certo che nel corso dei secoli molte città hanno cercato strenuamente di difendersi da questa razionalizzazione calata dall’alto, cercando in mille modi di costruirsi e ricostruirsi dal basso, attraverso giochi sociali – talvolta lungimiranti, talora ciechi ed egoistici, ma comunque efficaci – che mediassero il bisogno di articolare i mondi vitali degli individui con la necessaria libertà degli stili di vita, la crescita delle relazioni interpersonali, l’ infinita capacità di ridisegnare le forme della convivenza sulla base di valori, ideologie, utopie più o meno condivise.
Tante città presentano volti contradditori e non compiutamente disegnati, una incoerente stratificazione di immagini e vissuti, una pluralità di cifre etiche ed estetiche che il tempo ha talora accatastato, talora armonizzato, ma che nella loro unicità dispiegano l’identità delle persone e delle comunità, lo svolgersi e l’intrecciarsi di storie che compongono la storia di un territorio. Ma tutto questo viene ora messo in discussione dalla pretesa di distruggere e ricostruire pezzi significativi di una unità urbana – guarda caso, quasi sempre i quartieri popolari, dove forse si suppone che viva gente senza identità e senza storia -, giustificando questa scelta con un ragionamento che è prettamente economicistico: si fa prima e costa molto meno buttare via e rifare la città piuttosto che fare manutenzione di agglomerati originati da precise motivazioni sociali e via via trasformati in organizzazioni ibride e spesso degradate della convivenza.
È la logica del consumismo che invade anche il campo dell’architettura e dell’urbanistica; è un’ulteriore affermazione della globalizzazione che, omologando gli spazi e i tempi della convivenza umana, vuole sviluppare una cittadinanza apparentemente universalistica, in realtà distrutta dalla perdita irrevocabile delle radici e dall’usura dei punti di riferimento che rendono intelligibile la quotidianità.
Altrove questo modo di procedere sembra funzionare; in Italia non ha mai raggiunto successi apprezzabili e oggi trova, dopo il diffuso fallimento dei grandi quartieri popolari sorti a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, resistenze sempre più consapevoli e lungimiranti. Non è questa, evidentemente, la risposta vincente al rischio sempre incombente del degrado delle strutture urbane. Si moltiplicano i conflitti urbani legati a questa scelta (si pensi alla ricostruzione delle città alluvionate e terremotate o alla vicenda recentissima che interessa il quartiere di Tor Bella Monaca a Roma). Essi sembrano a molti incomprensibili e perdenti, ma forse vale la pena riflettere sulle motivazioni di chi esprime questa posizione di rifiuto.
In primo luogo occorre fare i conti con un dato culturale peculiare. Per la maggior parte degli italiani la casa, soprattutto quando è in proprietà e si trasmette di generazione in generazione, non è soltanto il luogo in cui una persona, una famiglia abita. Da un punto di vista culturale e affettivo, è molto di più; ha un valore simbolico che va ben oltre la sua funzionalità e il suo valore economico; è la cifra distintiva di un’appartenenza, di relazioni vitali, di forme concrete di responsabilità e di partecipazione sociale. Soprattutto dove si registra la persistente estraneità fra pubblico e privato, la casa non viene e non può essere intesa come un contenitore, ma come parte integrante e condizione fondamentale dello sviluppo della biografia personale. Accanto a questa considerazione, occorre essere consapevoli che la residenza abituale in un quartiere o in un borgo significa, per i più, la possibilità di orientarsi nello spazio e nel tempo e di determinare relazioni di prossimità (parentali e di vicinato) che costituiscono tuttora la più efficace (e talvolta l’unica) rete di contenimento e di solidarietà nelle incertezze della vita quotidiana; il trampolino di lancio di una progettualità esistenziale che può anche (e spesso dolorosamente) prevedere la necessità del partire, ma tiene viva la speranza di un ritorno più o meno definitivo nell’alveo della propria storia; un pezzo significativo del proprio itinerario di educazione e della continua elaborazione di un modo concreto di valutare e interpretare la propria esistenza.
Anche se la città oggi appare spesso come un ambiente anonimo e dominato dalle individualità, essa continua a rappresentare, nell’immaginario collettivo degli italiani (e soprattutto di chi è meno attrezzato rispetto alle logiche della postmodernità), il tessuto connettivo fra la persona e la comunità sociale; la speranza di una qualità di vita basata sul reciproco riconoscimento entro una comune etica della fiducia; il perimetro entro il quale si determinano e si rispettano regole comuni che agevolano la cura della convivenza; la teca che custodisce e ravviva le identità culturali – anche quelle fragili -, difendendole da tutti i rischi di crescente insignificanza.
Tutto questo non può restare disatteso, se non si vogliono aggiungere ulteriori elementi di instabilità e di degrado della vita urbana, che acuiscono e possono rendere esplosiva la convivenza sociale. Ma vale anche la pena riflettere con attenzione su una questione di fondo: piuttosto che chiedersi a cosa serve un pezzo di città usurato e logorato, forse è il caso di domandarsi quanto vale in termini di giacimenti di senso e quanto tempo, esperienze, speranze ci sono voluti per la formazione di un patrimonio che è un bene comune e che non può essere sostituito in breve termine.
Intervenire forzosamente sul rapporto che lega indissolubilmente lo spazio e il tempo è contro qualsiasi forma di saggezza ecologica ed è molto rischioso, soprattutto in riferimento alle nuove generazioni, che hanno il diritto di continuare a crescere in quartieri e città percepiti come una certezza che offre stabilità. Certamente la riqualificazione di porzioni importanti del territorio urbano costa di più in termini monetari, ma bisognerebbe abituarsi a pensare che questa operazione rappresenta, sempre e comunque, un investimento per assicurarsi il bene più importante per una società: la democrazia, quella sostanziale, che viene sperimentata e si rigenera attraverso forme concrete di appartenenza e partecipazione dei cittadini alla vita del proprio territorio.