Sono passati moltissimi anni da quando fu insediata la prima ciminiera della Cementeria di Barletta (la sua inaugurazione risale all’ottobre del 1912). Da allora si sono avvicendati moltissimi azionisti, proprietari e imprenditori nei suoi uffici amministrativi e sono passati moltissimi anni durante i quali le polveri sottili prodotte dalla cementeria si sono posate costantemente e silenziosamente dovunque, sugli alberi, sui cespugli, sui balconi, sulle inferriate, sulle terrazze degli edifici, sulle case vicinissime all’azienda. Oggi, le polveri sono meno visibili; l’ultimo gruppo di proprietari, probabilmente colto, forse, da un senso di colpa, ha montato filtri e barriere ai fumi ed alla polvere di cemento.
A vederla da vicino sembra una grande portaerei sulla terra ma smembrata, costituita da migliaia di elementi funzionalmente connessi tra loro, razionalmente progettati per produrre il massimo servizio, il massimo profitto, senza rendersi conto del massimo disordine visivo, dell’obsolescenza e del senso di abbandono che un tale ammasso di elementi funzionali produce, come impatto visivo, nella città vivente.
E’ il prodotto dell’immaginazione ingegneristica prona al capitalismo più sfrenato e indifferente alla storia e alla comunità che la ospita.
Inoltre, alcuni anni fa, a completamento del già infelice prodotto urbano realizzato, fu concessionata, con tutte le autorizzazioni del caso, la costruzione di una torre altissima, si racconta che sia alta cento metri. La torre, anch’essa costruita in cemento armato gettato in opera e lasciata con il suo grigio naturale scabro a vista, è il risultato perfetto di un prodotto dell’ingegneria industriale e del pensiero dell’ingegneria dominante in provincia. Il dato alquanto anomalo è la sua altezza, fuori da ogni vincolo urbanistico. Sappiamo che nelle norme urbanistiche di qualsiasi piano regolatore vigente, nelle sue norme transitorie è sempre inserita una clausola che permette interventi speciali finalizzati alla costruzione di volumi speciali, come i grandi volumi tecnici per le Aziende, anzi per i Cavalieri del Cemento, giustificando probabili aumenti dei posti di lavoro, senza nessun veto, nessun percorso ad ostacoli, nessun ritardo amministrativo.
Loro possono costruire sempre e dovunque, e nel caso specifico, anche con norme speciali del P.R.G. che, giustificando ogni intervento in un modo amministrativamente impeccabile, non giustificano però il risultato architettonico urbano a poche centinaia di metri dal Castello Svevo-Normanno-Angioino, composto da una somma di elementi scomposti che creano, una poltiglia visiva di cemento, acciaio, vetro, tutti dimenticati da anni, forse dalla data della costruzione originaria e da allora rimasti fissi nel tempo, senza nessuna manutenzione ordinaria o straordinaria risultando oggi rotti, precari, frantumati, arrugginiti ma ormai, acquisiti dall’immaginario collettivo come architettura urbana ineluttabile realizzata con forme abbandonate dal tempo e dagli uomini.
Tutto ciò produce un’architettura urbana estrema, orrida, malsana, che corrode i principi dell’architettura di una città, che s’insinua nella mente delle generazioni future, convincendoli dell’idea che l’errore progettuale urbanistico e ingegneristico è norma. E’ l’estremo risultato dell’abbandono della qualità urbana e suburbana nutrita da edifici, funzioni, materiali e comportamenti che erodono e si contrappongono in modo stridente all’antica storia della città di Barletta e ai suoi valenti uomini nonché ai segni di una civiltà dimenticata dove ogni elemento era ed è un’ottima fusione della cultura del bello, della forma, della funzione della storia della città e del paesaggio urbano di cui ogni città è composta.
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