
Secondo alcune stime, l’isola di plastica galleggiante è grande tre volte la Francia.
Nonostante le leggi sull’inquinamento, le continue ed incessanti campagne di sensibilizzazione, le raccolte straordinarie ed i progetti per migliorare la qualità dell’ambiente, la plastica continua ad invadere i mari e gli oceani, soffocando l’habitat ed aumentando l’inquinamento.
La plastica e la catena alimentare
Le enormi quantità di plastica e microplastica sono entrate a far parte anche della catena alimentare. Si sa che molti animali acquatici scambiano la materie plastiche per cibo, ingurgitandone grandi quantità che portano irrimediabilmente alla morte. Molto note sono le vicende delle tartarughe o delle balene che hanno mangiato la plastica nella convinzione che si trattasse di meduse o plancton.
Isola di Rifiuti nell’Oceano Pacifico
Ma questi materiali altamente inquinanti, da tempo, formano negli oceani, grazie alle correnti, agglomerati di spazzatura che vista la loro estensione sono stati ribattezzati “isole”.
Forse la più grande è quella nell’Oceano Pacifico che, da rilievi effettuati di recente dai satelliti, dovrebbe essere estesa circa tre volte la Francia.
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Un’isola di rifiuti così grande, oltre a rappresentare una vera bomba ecologica, rappresenta un rischio per la sussistenza della vita marina e per la navigazione.
Una quantità così importante di rifiuti ha sicuramente grandi problematiche per lo smaltimento. La raccolta può rappresentare sicuramente notevoli problemi: partendo dai costi, che sono evidentemente molto alti, c’è da considerare l’impiego di mezzi e uomini per la raccolta e lo smaltimento, i siti per il conferimento dei rifiuti e per l’eventuale riciclo; inoltre, c’è da capire quale governo o nazione e quanti tra di loro dovranno farsi carico di tutta la gestione dell’operazione. È un problema troppo grande da gestire da soli seguendo i soliti iter burocratici. Ma è un lavoro che va fatto, quanto prima, perché la situazione da disperata può diventare irrimediabilmente compromessa.
Isola di plastica: le possibili soluzioni
Il blocco europeo alla produzione di oggetti usa e getta in plastica ed il divieto, della Puglia di portare sulla spiaggia oggetti in plastica sono già un buon passo avanti nell’ottica dell’ecosostenibilità. Anche altri Paesi in tutto il mondo stanno emanando leggi contro la produzione e l’utilizzo della plastica e nuove politica di riciclo, anche la Cina ed alcune nazioni emergenti in via di sviluppo, ma tutto ciò evidentemente non basta.
Tra i tanti progetti internazionali, spicca quello della fondazione The Ocean Cleanup, che intende raccogliere i rifiuti attraverso un sistema galleggiante alla deriva lungo circa 2 chilometri che sfrutta le correnti marine, ed il seabin, che raccoglie i rifiuti che le correnti spingono nei porti. Questi sistemi sono oggi considerati tra i più validi, perché a pieno regime possono raccogliere grandi quantità di rifiuti, comprese le microplastiche. Nel caso del The Ocean Cleanup si stima che, una volta operativo nel 2020, potrà ripulire il 50% dell’isola dei rifiuti del Pacifico in 5 anni.
Oltre allo stop totale a livello mondiale di produzione della plastica ed al riciclo di quella già esistente, la ricerca ha proposto altre soluzioni: i batteri, gli enzimi, una larva ed un fungo.
Batteri, enzimi, larve e funghi
Il batterio Ideonella sakaiensis, scoperto nel porto di Sakai in Giappone nel 2016 in un sito di riciclo di bottiglie, è in grado di digerire il PET, il polietilene tereftalato, il materiale che compone la plastica.
Un enzima, invece, contenuto dal batterio Ideonella, modificato per errore in laboratorio, ha dimostrato di poter digerire in maniera più efficiente la plastica.
Una ricercatrice italiana in Spagna ha poi scoperto che le tarme della cera, Galleria mellonella, mangiano il polietilene. La scoperta è avvenuta per caso: nel ripulire i favi dei suoi alveari, aveva gettato queste larve in un normale sacchetto di plastica che è stato divorato un poco tempo. In laboratorio, le tarme avevano fatto i primi buchi in 40 minuti e mangiato il sacchetto in meno di 12 ore. Ciò è possibile grazie ad un enzima che le larve utilizzano per mangiare la cera d’api.
In una discarica di Islamabad in Pakistan è stato scoperto un fungo, l’Aspergillus tubingensis, in grado di degradare il poliuretano poliestere. In laboratorio, gli scienziati hanno notato che il fungo, dopo aver colonizzato un foglio di materiale plastico, ha degradato la sua superficie in due mesi in ambiente liquido.
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Biodegradabili non degradabili
Queste soluzioni ora assumono un valore assoluto alla luce della scoperta che gli oggetti biodegradabili lanciati sul mercato tempo fa, in sostituzione delle materie plastiche, in realtà non si degradano come previsto. La ricerca è dell’’Istituto di Biologia e Scienze Marine della Università di Plymouth. I test hanno decisamente smontato questo “mito”.
Insomma, alla luce di quanto detto finora, la situazione è grave, ma ci sono valide soluzioni. Basta solo applicarle, dopo però aver valutato le possibili conseguenze nel futuro.