

Nello scorso maggio il GIP di Milano sblocca 1 miliardo e duecento milioni per il risanamento dell’ILVA: i soldi sono all’estero, i Commissari Straordinari del Siderurgico ne chiedono lo scongelamento e la Procura milanese chiede all’autorità svizzera di trasferire la somma in Italia. I soldi dovevano incrementare il Fondo Unico Giustizia, che avrebbe sottoscritto obbligazioni emesse dall’Ilva in amministrazione controllata. Una somma enorme, ben 1200 milioni di euro che, come prevede una legge del 4 marzo 2015, dovevano essere utilizzati per il risanamento ambientale dello stabilimento siderurgico. In realtà si trattava di soldi derivanti dalle attività di sequestro di fondi, azioni, ecc., presenti sul mercato estero e che dovevano recuperarsi: per questo motivo anche noi avevamo espresso perplessità, anche per la difficoltà del loro recupero, specie qualora fossero in paradisi fiscali.
In questi giorni la Svizzera ci propone però una doccia fredda, in quanto il tribunale svizzero di Bellinzona, a cui hanno fatto ricorso alcuni eredi Riva, ha ritenuto che la restituzione dell’ingente somma configurasse una espropriazione in assenza di un giudizio penale.
Un pronunciamento che mette in crisi le speranze di risanamento ambientale. oggi non è più procrastinabile. Taranto è in crisi, l’ambiente è sofferente, la città deve esprimere il suo futuro con una vision chiara.
In questa situazione si inserisce il nono decreto ILVA pubblicato lo scorso 4 dicembre, una soluzione tampone e che mira a fronteggiare le ripercussioni che si originano sulle possibili trattative per una vendita dello stabilimento più grande d’Europa. Taranto e l’ILVA vivono una situazione di assoluta emergenza e servono, ora più che mai, scelte forti ma costruttive. Occorre forse riflettere se il futuro della città deve essere costruito attorno al risanamento dell’ILVA o alla sua definitiva chiusura: i costi di un abbandono sono enormi sia sotto il profilo occupazionale che ambientale. L’eredità di questa storia infinita sarebbe un’immediata povertà, oltre che un profondo degrado che difficilmente potrebbe essere sanabile in mancanza di una strategia di rinascita alternativa, non possibile per mancanza di risorse economiche.
Attualmente il nono decreto traccia il percorso per il futuro industriale e cerca di dare garanzie massime per poter rendere possibile l’intervento di privati, ma è limitativo. Lo leggiamo in vari punti del testo, che cerca di dare spazio ai profili di tutela ambientale e propone un prestito di 300 milioni per sopperire nel breve periodo ai problemi economici presenti. Intanto la situazione si fa più complicata e il decreto interviene facendo slittare al 31 dicembre 2016 il termine utile a realizzare gli interventi previsti nell’AIA e, per agevolare i privati, consente che il futuro piano industriale possa apportare modifiche al piano delle attività di tutela ambientale e sanitaria e quindi all’AIA.
Soprattutto, però, il nono decreto non dice nulla sul futuro di Taranto e sulla sua ricostruzione, né si collega o richiama ad una vision che a parte si sta definendo, prendendo le mosse solo dalla mancanza dei 1200 milioni di euro su cui si faceva affidamento per l’ambiente.
Ora dobbiamo chiedere al Premier Renzi, al Governo e al Governatore Emiliano, che si intervenga con urgenza con il Piano per il Sud e con lo specifico Patto per Taranto, che deve contenere sin da subito la visione della Taranto del futuro e fornire le ingenti risorse per il risanamento e rilancio della città dei due mari.
È questa l’occasione da non perdere per guardare avanti ed attuare il modello di sviluppo che si vuole per Taranto e che trovi i cittadini d’accordo.