“Fratelli Tutti”: La riscrittura della grammatica della globalizzazione

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Il Papa offre una “terapia” per guarire il mondo malato, invocando la cura dell’amicizia sociale

Un cammino intrapreso da molto tempo e condiviso con testimoni importanti del nostro tempo.

Un’enciclica non si improvvisa, né tanto meno la si può far derivare da eventi complessi e dolorosi, ma pur sempre contingenti. Non è uno scritto post Covid, anche se chiaramente il Papa non avrebbe potuto ignorare ciò che è stato per lui motivo di coraggiosa ricerca di una direzione di marcia condivisa, testimoniata attraverso il sincero mostrarsi al mondo con il gravoso carico della sua personale fragilità e solitudine. L’esperienza della pandemia per lui ha significato, piuttosto, un’ulteriore occasione preziosa per ripensare criticamente il fenomeno della globalizzazione, con i suoi punti di forza ma anche le grandi contraddizioni e limiti.

Non a caso il testo dell’enciclica è costellato da riferimenti e citazioni che attraversano per intero il pontificato di  Bergoglio – illuminato dalla continua presenza profetica di Francesco d’Assisi – ma che si snoda attraverso il dialogo con tanti protagonisti del mondo contemporaneo, anche impensabili: uno fra tutti Ahmed Al Tayyeb, grande Imam dell’Università Al-Azhar del Cairo, incontrato ad Abu Dhabi nel 2019 per ricordare insieme che Dio “ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli fra di loro”. E non si può neppure tacere ciò che potenzialmente potrebbe derivare, sul lungo periodo, dalla straordinaria partecipazione del Papa al Forum internazionale di Cernobbio per parlare al cuore degli economisti e dei politici che muovono i fili della globalizzazione.

Dunque, la “Fratelli tutti” vuole esprimere, nella stessa metodologia che ha guidato la riflessione del Pontefice, la disponibilità a ritrovarsi davvero tutti insieme nella stessa barca evocata nei momenti più terribili del lockdown, per poter affrontare una tempesta che forse non ha eguali nella storia del mondo e che tuttora sembra essere dominata dalla “evidente incapacità di agire insieme” per salvaguardare interessi individualistici e “narcisistici”.

È indiscutibile, peraltro, la continuità di questa enciclica con la Laudato si’, da cui riprende idealmente il tema dell’ecologia integrale, volendo però approfondire, rispetto alle tematiche più direttamente ambientaliste, il retroterra socio-economico e culturale da cui si determinano gli attuali squilibri del pianeta. Il tema dell’ecologia sociale porta a precisare meglio le responsabilità umane nel dissestato rapporto con la natura e anche ad individuare possibili strategie per rinnovare il senso di appartenenza e partecipazione che deve regolare le decisioni sul futuro delle società locali.

La storia sta dando segni di un ritorno all’indietro

Quella del Papa è un’analisi realistica e allo stesso tempo radicale: dal suo osservatorio che abbraccia la mondialità nella sua interezza, la globalizzazione ha scambiato la vicinanza con la prossimità, rendendo le persone e i popoli schiavi del mercato, della finanza, che ha bisogno di spettatori e consumatori, piuttosto che di interpreti e protagonisti della vita sociale. E la stessa politica, cui spetterebbe il compito di orientare e dominare l’economia in nome di un’etica che difende la dignità umana, è di fatto asservita a questa logica, che amplifica con ideologie e prassi che di fatto confermano e amplificano la disuguaglianza, l’esclusione, la marginalità.

Gravi forme di colonizzazione economica e culturale, la perdita di senso e di memoria storica indotta nelle nuove generazioni, la diffusione nella comunicazione sociale e mediatica di temi che provocano mancanza di speranza e sfiducia costante, sono i fenomeni che determinano la tendenza al “decostruzionismo” che sembra permeare identità storiche differenti, omologandole forzosamente nella comune tendenza ad adottare regole sociali che portano all’aumento della ricchezza nelle mani di pochi, alla perdita dell’equità sociale, all’espansione delle vecchie e nuove povertà, sempre più insanabili, che la pandemia ha solo evidenziato, strappandole al confinamento nel sommerso che imprigiona le vite di scarto presenti in ogni sistema sociale.

Microcosmo e macrocosmo mostrano, per Bergoglio, un’unica drammatica epifania: la fine dell’idea del mondo come regno della pluralità e speranza di una rinnovata convivialità delle differenze, per far posto ad una cosmologia miserabile chiusa nell’esperienza del “mio mondo”: un incrocio di spazi che non diventano più luoghi e di tempi scansionati in attimi che imprigionano l’io, impedendogli di crescere attraverso il dinamismo fondamentale che è l’incontro con l’alterità.

La globalizzazione peraltro non esclude l’idea di progresso, ma, in mancanza di una rotta comune, finisce col svilire i progressi delle scienze e della tecnologia, genera un continuo deterioramento dell’etica sociale, mortifica le azioni internazionali. Anche nella minuta trama della quotidianità si insinuano paure e forme di aggressività, generate da continue frustrazioni, solitudini e disperazione, che portano a concludere che non ci può essere una salvezza comune, ma soltanto la mera sopravvivenza dei singoli a danno dei più deboli. Tutto questo mette radicalmente in crisi il concetto stesso di civiltà, intesa come organizzazione razionale ed etica di una convivenza inclusiva e solidale, rispettosa dei bisogni e dei diritti di tutti e allo stesso tempo orientata al bene di tutti.

L’amicizia sociale contro la desertificazione della convivenza

A questa lunga e articolata analisi corrisponde l’appassionata ricerca di una terapia efficace. Se può apparire scontato – nella disamina di temi come la miseria e l’immigrazione, la negazione del diritto alla vita e alla dignità personale – il richiamo a termini come appartenenza e solidarietà, l’invito ad un’etica che produca responsabilità ed esercizio delle virtù civili, sicuramente colpisce nell’enciclica l’uso di un’espressione, l’amicizia sociale, che sembra voler rianimare nel profondo il senso dell’umanità insito in ogni persona e in ogni cultura.

C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e perfino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana”. Parole forse sorprendenti per chi pensa che un’enciclica debba essere austera, che non possono essere riferite soltanto alla differenza fra le relazioni interpersonali e le forme della comunicazione mediatica.

Papa Francesco volutamente usa il linguaggio del cuore per invocare relazioni che siano davvero manifestazione di incontro, tensione all’amicizia, condivisione della reciproca intimità e non racchiude tali esperienze nel recinto della vita privata; al contrario ne fa il perno del rinnovamento della vita sociale, usandole come elemento cardine per una conversione politica: la gentilezza, la tenerezza, la cura diventano nel suo pensiero qualcosa di profondamente rivoluzionario, per andare verso una piena umanizzazione della società. Dunque non è, quella dell’enciclica, una riscrittura della grammatica dell’affettività ad uso personale, né un vademecum di psicologia sulla maturità umana, ma il tentativo di riannodare i fili di un’etica sociale dimenticata ormai da troppo tempo, la cui rimozione porta ad un carico indicibile di sofferenze individuali e collettive.

Quell’essere “analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate” – cifra distintiva dell’Occidente, ma ormai prassi dilagante anche negli altri continenti – non è dunque una condanna inappellabile. La desertificazione della convivenza sociale può essere combattuta da coloro che si convincono che “la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro”. Ma occorre, stando all’icona del buon samaritano che costituisce un faro per un cambiamento possibile, che si impari a pensare e generare un mondo aperto e ospitale, pronto a farsi carico delle ferite dell’umanità spesso avvertita come straniera e lontana.

Su questo punto il Pontefice ripropone alcuni capisaldi della cultura laica occidentale a cui spesso ci si riferisce con il richiamo all’Illuminismo, ricordando che l’anelito alla libertà e all’eguaglianza, elementi basilari delle democrazie, avrebbero ben poco da proporre, se non ci fosse anche l’intervento della fraternità sociale, che consente ad un popolo di non ridursi ad essere soltanto la sommatoria di individui, ma un insieme capace di costruire con tutti e per tutti il senso vero della cittadinanza. La stessa solidarietà, in questo rinnovato contesto interpretativo della convivenza sociale, diventa rilevante se, senza disperdersi ed esaurirsi nell’assistenzialismo spicciolo, si rende capace di generare una nuova esperienza storica.

Tutto questo, è evidente, riguarda tutti, al di là delle specifiche identità culturali, politiche e religiose. Anzi, su quest’ultimo punto Francesco si mostra particolarmente severo, consapevole che le fedi spesso hanno indotto o  prodotto gravi forme di intolleranza e violenza sociale. Ma il suo rilievo, se da un lato vuol servire  a richiamare tutti i credenti ad una maggior intelligenza del proprio credo, dall’altro è un invito alla comune responsabilità, all’accoglienza di un impegno che porti ad una direzione comune di marcia per il bene soprattutto delle nuove generazioni.

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