Frana nel cimitero di Camogli: un problema culturale?

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Frana cimitero Camogli, Liguria, 23 febbraio 2020

Le immagini delle bare in mare hanno fatto il giro del mondo. Una tragedia che forse poteva essere evitata. Intervista al presidente Società italiana di geologia ambientale.

Un tremore. Persino i gabbiani avevano capito quello che stava per accadere, levandosi in volo. Pochi secondi e la falesia ha ceduto. Numerose bare sono finite in mare. L’eterno riposo non riposa più come dovrebbe. Le immagini del cimitero che frana arrivano da Camogli, in Liguria, il 23 febbraio e in poche ore fanno il giro del mondo. Riflettori puntati su pianificazione, falle nella progettazione, su quello che si poteva fare e non si è fatto fino ad arrivare al peggio.

Il cedimento della parete rocciosa ha distrutto e poi fatto scivolare nell’acqua anche due cappelle con all’interno alcune salme. Il crollo sarebbe stato provocato dall’erosione della falesia sotto all’area cimiteriale e dalle piogge persistenti degli ultimi mesi. Ad aggravare la situazione sarebbero state le violente mareggiate che hanno colpito la zona negli ultimi anni. Una zona sotto osservazione da tempo; erano in corso, infatti, i lavori per il consolidamento della falesia rocciosa sotto al cimitero finanziati dalla Regione. A dare l’allarme sono stati proprio alcuni operai.

Lo splendido litorale ha cambiato volto: roccia e sabbia sembrano essersi fuse. Per capire meglio cosa è accaduto, abbiamo intervistato Antonello Fiore, presidente della Società italiana di geologia ambientale.

Fiore: i cambiamenti climatici non siano un alibi

Cosa è accaduto a Camogli?

«È una dinamica che registriamo dove ci sono le coste alte che vengono interessate dal moto ondoso. Il problema è che non sarebbe dovuto essere costruito lì quel cimitero. Non doveva essere realizzata in un’area a pericolo di crollo».

Antonello Fiore, presidente Società italiana geologia ambientale

Però si sapeva che la zona era a pericolo crollo.

«Non dobbiamo solo pensare agli interventi di messa in sicurezza, dobbiamo partire dalla pianificazione, il che significa individuare le aree idonee ad ospitare infrastrutture e costruzioni. Se facciamo bene la pianificazione, evitiamo fenomeni del genere.

Quando si urbanizzano alcune aree, prima si fanno delle analisi e si valuta se sono sicure o meno e si decide se cominciare a costruire. Quando ci sono delle aree già costruite dove nel tempo si evidenzia un rischio geologico, si aprono due strade: si delocalizzano oppure si fanno degli interventi di messa in sicurezza. Probabilmente quel cimitero poteva essere delocalizzato.

Dal rapporto ReNDIS 2020 dell’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) è emerso che per mettere in sicurezza il territorio, per quanto riguarda frane e alluvioni, servirebbero 26 miliardi di euro.

È un problema di ordine culturale; non possiamo arrivare soltanto a segnalare e realizzare interventi di messa in sicurezza che interessano il costruito».

Camogli non è l’unica zona a rischio in Italia, vero?

«Ci sono tantissime aree a rischio frane e alluvioni, basta prendere i PAI (piani di assetti idrogeologici), poi c’è un altro rischio che è quello dello sprofondamento legato alla presenza di cavità naturali e di origine antropica nel sottosuolo».

La “responsabilità” è dei cambiamenti climatici?

«Ci sono tante aree a rischio perché si è urbanizzato senza una corretta pianificazione. Le frane non sono comparse all’improvviso; il cambiamento climatico non deve essere un alibi per giustificare le nefandezze fatte in passato. Se le aree oggi sono a rischio alluvioni è perché si è costruito all’interno delle aree golenali per esempio, o in quelle in cui si esondano naturalmente i corsi d’acqua.

Il problema delle frane va dalla Liguria alle Alpi, all’Appennino. Di recente un hotel in provincia di Bolzano è stato interessato da una frana. Ma non solo: c’è stata un’alluvione a Bitti (Sardegna) lo scorso autunno. Si accendono i riflettori solo quando ci sono delle tragedie».

Nell’originario progetto del 1812 il cimitero era distante dalla falesia. La decisione di costruire il nuovo settore sul bordo della scarpata è del 1935. Fonte: prof. Nicola Casagli, geologia applicata Università di Firenze

Come porre fine a tutto questo?

«Bisogna sburocratizzare gli interventi. Le amministrazioni devono essere dotate di tecnici e professionisti che possono dare subito pareri certi. Gli interventi di mitigazione del dissesto idrogeologico hanno bisogno di manutenzione. Insomma, bisogna rivedere il sistema e mettere al centro il lavoro intellettuale e le risorse umane, trasferendo ai più piccoli quel sapere per poi farlo diventare patrimonio individuale e collettivo, coscienza civica e ambientale.

Se io costruisco in una zona in cui c’è pericolo di frana, è chiaro che prima o poi la frana si verificherà. In alcuni casi l’uomo con le sue costruzioni potrebbe anche accelerare la frana stessa.

È una mancanza di cultura e di rispetto. Per esempio siamo ancora in attesa della legge sul consumo di suolo, riproposta in questa legislatura, ma non credo che verrà approvata. Nel frattempo manca una norma organica nazionale che vada a contenere il consumo di suolo.

I dati Istat sui fabbricati non utilizzati in Italia sono impressionanti: ci sono oltre 7 milioni di case vuote, 100 mila capannoni dismessi, centinaia di spazi commerciali inutilizzati. Invece di rigenerare e recuperare queste strutture inutilizzate, specialmente per riqualificare gli ambienti urbani dove trascorriamo la maggior parte del nostro tempo, consumiamo altro nuovo suolo.

Spesso l’egoismo imprenditoriale prevale sull’interesse della natura e della vita che essa ospita».

 

 

 

 

 

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