
Lo psichiatra Semisa: “La depressione può prendere chi non riesce a ad adattarsi alla vita diversa generata dal coronavirus e non riesce a costruire intorno a sé nuove situazioni”
E’ tempo ormai di confrontarci con i nuovi ritmi di vita imposti dal coronavirus. La fase 2 può essere considerata la prova generale di come vivremo negli anni a venire. Uscirne indenni è e sarà difficilissimo. E non è detto che tutti ci riescano. La depressione è uno dei “regali” che questo terremoto dal nome coronavirus ci lascia. Come affrontare la depressione? Ambient&Ambienti lo ha chiesto al dottor Domenico Semisa, direttore del Dipartimento di Salute mentale della ASL provinciale di Bari, (la più grande di Puglia) e presidente della Società Italiana di Riabilitazione Psicosociale.
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L’intervista
Dottor Semisa, questa pandemia da coronavirus porta conseguenze più serie dal punto di vista della salute mentale, come ad esempio la depressione?
«Assolutamente sì, perché la confusione e la disinformazione comportano un aumento dello stress e delle emozioni».
Ma quali emozioni ci ha provocato il coronavirus?
«Anzitutto la preoccupazione (per il lavoro, per il denaro, per fatti concreti). Poi la paura di contagiare persone care o di essere contagiati. Ancora, il contatto con la morte: prima non ci pensavamo mai. In questi mesi (e in misura molto minore ancor oggi), c’è stata la conta quotidiana dei morti, abbiamo visto i camion militari che portavano via dalle loro città decine di salme. Un’altra fonte di stress è il recuperare certi stimoli, perché l’isolamento ci ha portato tante volte alla disaffezione, alla passività, all’indolenza. E’ una reazione dovuta allo stress anche la rabbia, perchè non sappiamo come reagire a questa situazione, ci sentiamo impotenti».
Tutto questo porta alla depressione?
«Certo. Tutto quello di cui ho parlato comporta un sovraccarico fisico e psichico, che porta non solo a modificazioni comportamentali, cioè di abitudini, ma anche alla depressione. E la depressione può diventare talmente grave da arrivare anche al rischio di suicidio. Questo può accadere a chi non riesce a vedere la luce, a recuperare nuovi significati, nuove abitudini comportamentali, cioè a chi non riesce ad adattarsi a costruire intorno a sé nuove situazioni.»
Chi è a rischio depressione?
Quali potrebbero essere le categorie le fasce di età più a rischio? Chi potrebbe reagire meglio?
«Dobbiamo distinguere due aspetti, uno identitario e uno emotivo. Se consideriamo l’aspetto identitario, ci accorgiamo che reagisce meglio ed è più protetto chi ha una identità forte e strutturata, cioè la persona che sa quello che è, che sa “prendere le misure” a se stesso, ai suoi pregi e ai suoi limiti, e in qualche modo è in pace con la propria identità. Anche questa persona certo si dovrà sottoporre allo stress di dover reinventare la sua realtà, però ha gli strumenti per poterlo fare. Chi ha un’identità più debole, chi ha bisogno di conferme, le persone in formazione, le persone con lavori precari, le persone con situazioni familiari precarie, sono persone più a rischio».
Come incide invece l’aspetto emotivo?

«In questo caso dobbiamo guardare alle fragilità personali. Sul piano delle fragilità personali i ragazzi sono a rischio, perché le loro personalità sono in formazione. Sotto l’aspetto identitario, ad esempio del ruolo sociale, paradossalmente i ragazzi sono meno a rischio, perché devono ancora conquistare il proprio ruolo sociale. I ragazzi, escono, riprendono a ridere, si incontrano, fanno gruppo, magari si pongono pochi problemi per il futuro, perché sono ancora nella fase della irresponsabilità, cioè non hanno ancora maturato il concetto della responsabilità in ambito sociale. Sul piano dell’identità sociale, è più a rischio il commerciante adulto che rischia di chiudere il negozio e non sa come reinventarsi».
Resilienza, ancora di salvezza
Si è parlato di resilienza. Sviluppare una capacità di adattamento può essere la soluzione per affrontare la fase 2 e più in generale l’esperienza del coronavirus?

«E’ fondamentale, ed è una grossa carta da giocarsi, la capacità di adottare strategie di adattamento. E queste possono essere le più diverse. C’è chi adotta strategie di adattamento basate sul problem solving, cioè su un compito da svolgere, sulla ricerca della maniera per raggiungere i suoi obiettivi. C’è chi adotta strategie di adattamento centrate sulle emozioni: c’è chi per esempio recupera la capacità di sperare in un futuro migliore, chi invece si sfoga e poi si sente meglio, chi si rassegna con un certo fatalismo. C’è chi si adatta “evitando” (gente che rimuove i cattivi pensieri, che si distrae, si impegna in diverse attività).
«Le strategie di adattamento sono diverse. L’importante è che ognuno abbia la capacità di adattarsi utilizzando il proprio bagaglio emotivo e comportamentale di meccanismi di difesa».
Chi crede di essere invincibile…
Un ultimo consiglio
«Lasciamoci aiutare. Non vergogniamoci di chiedere aiuto, anche a uno specialista. La nostra cultura ci ha insegnato ad essere prevenuti nei confronti delle difficoltà psichiche e, più in generale, di chi chiede aiuto. Abbiamo difficoltà a farci aiutare anche perchè siamo infarciti da falsi miti che ci vengono indotti dalla pubblicità. Il mito dell’uomo che non deve chiedere mai è una stupidaggine. Mentre invece è un segnale di saggezza sapere e avere la consapevolezza che ho un problema e che, se mi accorgo che da solo non riesco a superarlo e questo mi fa stare male e che col passare del tempo il problema non passa, io devo farmi aiutare. Poi ognuno sceglierà l’aiuto che vuole: può essere un amico più grande, un sacerdote, un fratello, uno psichiatra o uno psicologo, purchè, in questo caso, psicoterapeuta. Saper chiedere aiuto quando ci si rende conto di aver bisogno di aiuto, è un segnale di buonsenso e di saggezza, di maturità».