Energia elettrica dai batteri, una ricerca del CNR a Bari

Energia elettrica prodotta da reazioni chimiche naturali e processi biologici. Un progetto del CNR

L’Università di Bari è all’avanguardia in un particolare tipo di ricerca. Da tempo studia, infatti, come ricavare energia elettrica dalle connessioni biologiche e dai processi chimici naturali.

Ci sono studi a riguardo in molte parti del mondo che cercano di ricavare energia da svariate sostanze chimiche e dai processi biologici. Negli ultimi tempi, si è parlato di ricavare energia dalle interazioni del sangue umano, dalle reazioni chimiche del lievito, dai processi chimici che avvengono naturalmente nelle acque fognanti e persino dall’urina.

Il Laboratorio dell’Istituto dei Processi Chimico-Fisici del Consiglio Nazionale Ricerche che è ospitato all’interno del Dipartimento di Chimica dell’Università di Bari sta conducendo una serie di esperimenti che intendono produrre energia elettrica dalle interazioni dei batteri. Un team di 4 giovani (Massimo Trotta, Simona Lagatta, Michele Dilauro, Francesco Milano) volenterosi ed appassionati, intende realizzare una nanobatteria.

Il Progetto del CNR

A dirigere il progetto Massimo Trotta, ricercatore del CNR di Chimica Fisica e Microbiologia di Bari. A lui chiediamo: in che cosa consiste questo lavoro?

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batteri in coltura

«Si ispira alla fotosintesi. Esiste una macromolecola che ha lo specifico compito in tutti gli organismi fotosintetici di “acchiappare” la luce e trasformarla in uno stato specifico a cariche separate, cioè ci sarà una carica positiva ed una carica negativa separate da alcuni nanometri. Questo è ciò che fa una pila. La nostra idea è di sfruttare queste capacità di questa proteina per fare conversione di energia e sfruttare così l’energia ottenuta per processi ancillari».

Come si chiama la proteina?

«Si chiama “centro di reazione”, in inglese “reaction center”. Questa proteina è sintetizzata all’interno di batteri, ma esiste una versione un po’ più complessa, ma molto simile, all’interno delle piante».

Come si chiamano questi batteri?

«Si chiamano Rhodobacter sphaeroides. Sono molto antichi. Si chiamano batteri fotosintetici anossigenici perché fanno una fotosintesi senza ossigeno. Risalgono a quando sulla Terra non c’era ossigeno, intorno a 3 miliardi di anni fa. Si trovano oggi in nicchie ecologiche un po’ particolari, per esempio i fanghi dei fiumi, oppure alcune pozze calde di alcune solfatare. Si possono replicare e crescere in laboratorio. Sono il modello che è stato utilizzato per comprendere la biologia, la biochimica e la biofisica della fotosintesi in assoluto».

A che punto è la vostra ricerca?

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due colture diverse di batteri

«Abbiamo fatto un grandissimo passo avanti con la sostituzione di una parte del sistema che converte la luce utilizzando una molecola organica sintetizzata nei laboratori del prof. Gianluca Farinola del Dipartimento di Chimica dell’Università di Bari. Adesso stiamo cercando di spostare ulteriormente l’artificializzazione di questo sistema naturale, lavorando sul cuore fotochimico di questo sistema che richiede tempo e ricercatori. In questo periodo di scarsità di fondi, passiamo più tempo a scrivere progetti per la Comunità Europea che a fare esperimenti».

I tempi sembrano quasi maturi. Da qui a 10 anni potremmo avere già degli ottimi risultati. Queste “batterie biologiche”, ad emissioni zero ma con una resa del 100%, potranno sostituire quelle attualmente in commercio, molto inquinanti e con una resa estremamente ridotta.

Come si sostiene la ricerca in Italia

Come si mantiene questa ricerca? Ci sono interessamenti da parte dei privati, delle grandi aziende?

«I finanziamenti da parte delle grandi aziende sono complicati dal fatto che si tratta di una ricerca “in embrione”. Al momento non abbiamo un prodotto finito da mettere sul mercato. I fondi pubblici sono molto ridotti. Qualche anno fa sono stati finanziati i PRIN, i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, con una cifra più o meno analoga pagata per spostare Higuain dal Napoli alla Juventus. Tra quelli internazionali,  il progetto Horizon 2020 ha avuto una buona dose di fondi. Prima i fondi si ottenevano più facilmente, adesso i progetti sono estremamente competitivi e complessi, coinvolgono le aziende e richiedono tempi lunghi per la realizzazione. In questo momento la percentuale di successo di queste applicazioni è del 3% in Europa. Qualche anno fa era del 20%».

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Una possibile soluzione

Insomma, la ricerca c’è, ma i fondi sono “ballerini”, le aziende investono solo sui risultati ed i finanziamenti pubblici e privati sono altalenanti. Nel mezzo ci sono gruppi di studiosi che con grandissima passione, con forze fresche e menti giovani e reattive sono sempre alla ricerca di nuovi modi per rendere il pianeta più ecosostenibile. Un discorso sinergico tra Università, aziende ed istituzioni pubbliche potrebbe salvare la fuga di ottimi cervelli ed il mondo.

 

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