Alghe, il nostro futuro alimentare o un grave problema ambientale?

Foto di S. Hermann & F. Richter da Pixabay

Utilizzate nell’alimentazione e nella cosmesi, le alghe possono rappresentare una importante soluzione per il futuro dell’alimentazione ma in alcune aree marine hanno cancellato gli ecosistemi

 

Fin dalla preistoria per l’alimentazione umana, da decenni in cosmetici e altri prodotti non alimentari, le alghe rappresentano oggi a livello mondiale un’industria tutt’altro che marginale e, soprattutto, una prospettiva di crescita.

Recentemente riscoperte come “novel food” dalle proprietà miracolose, le alghe sono proposte come l’ennesima promessa di alimentare le comunità più povere con cibi dal gran valore proteico, non più creando monocolture terrestri, ma tuffandosi nelle nuove praterie sommerse.

Ma quali sono le opportunità economiche e ambientali, e, soprattutto, qual è il vero impatto sociale ed ecosistemico della loro produzione?

Secondo gli esperti esistono tra 30 mila e 1 milione di esemplari di alghe, e della maggior parte di esse non sappiamo assolutamente nulla. Quelle che conosciamo, e coltiviamo, al momento perlopiù per il consumo umano, secondo gli ultimi studi fruttano globalmente circa 6 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale anno dopo anno.

I Paesi che praticano l’alghicoltura sono 50 con la Cina e l’Indonesia che guidano la classifica, e condizioni sociali e remunerazione per chi ci lavora ai minimi livelli per mantenere i prezzi bassi. Stati Uniti ed Europa, per parte loro, in questi ultimi anni stanno cercando di recuperare a gran ritmo.

Foto di Free-Photos da Pixabay

La coltivazione di alghe è promossa dagli organismi internazionali come soluzione alla penuria di terre e di cibo a livello globale, come mitigante degli effetti dei cambiamenti climatici e dell’acidificazione delle acque oceaniche. Secondo la Banca mondiale, ad esempio, la coltivazione di 500 mila tonnellate di alghe arriverebbe a consumare 135 milioni di tonnellate di carbonio, che rappresenta il 3,2% della quantità assorbita dal mare a causa dell’emissione di gas serra.

Tuttavia non sempre gli effetti dell’introduzione di specie aliene lungo le barriere coralline degli oceani che ospitano queste distese galleggianti sono prevedibili. Diversi studi hanno confermato casi di distruzione degli ecosistemi e, conseguentemente, la privazione di sovranità alimentare e opportunità sociali ed economiche per le comunità della pesca che  a quegli ecosistemi devono la propria sopravvivenza.

Si tratta comunque di acquacoltura e come tale la produzione di alghe viene additata dagli ambientalisti. Secondo l’esperto statunitense Paul Molyneaux, «L’unica crescita economica reale è quella che consente all’ambiente, agli ecosistemi, e alle risorse naturali in genere di prosperare. E l’alghicoltura non garantisce nulla di tutto ciò».

Esiste tuttavia anche un approccio di rispetto verso questi organismi così primordiali dalle potenzialità così significative, come racconta la raccoglitrice di alghe selvatiche canadese Amanda Swinimer. Fondatrice di Dakini Tidal Wilds, sull’isola di Vancouver, il suo approccio è diretto a un più sano rapporto tra mare ed esseri umani.

In Italia, per esempio c’è Antonio Labriola, 35 anni di Marsico Nuovo in Basilicata, psicologo criminale e consulente in ambito gastronomico a Torino, propone una antica ricetta fatta con mischiglio, cioè un mix di farine un tempo recuperate dai contadini nei mulini e arricchite con rimanenze di farine di legumi, ceci, lenticchie e cicerchie. Impreziosito con spirulina che unisce mare e terra. Quando è a Torino, Labriola acquista le alghe in pescheria, quando è in Basilicata le raccoglie personalmente. Non solo alghe, ma anche piante selvatiche marine, come la salicornia – o asparago di mare – e il finocchio di mare.

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