Come tutti i settori e come in tutte le aziende, la fine di un anno è il momento per fare i conti, tirare le somme e valutare se l’andamento della propria azienda ha visto una progressione positiva o meno. L’“azienda” cui si fa riferimento in questo caso è l’Italia, messa sotto la lente d’ingrandimento, come ogni anno d’altronde, dal “Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese”. Tra i dati Censis pubblicati all’inizio del mese di dicembre e relativi a quest’anno, viene proposta – nel capitolo finale – un’analisi quantitativa e qualitativa sull’andamento sociale dell’Italia; titolo del capitolo: “Territorio e reti”. Il primo aspetto che viene toccato nel rapporto Censis è figlio della più ampia situazione di crisi che sta attanagliando il Bel Paese, e si concentra sull’ambito dell’edilizia e delle costruzioni.
Percentuali “difficili” – I numeri che affiorano sulle tabelle stilate non sono affatto confortanti, specchio fedele delle difficoltà economico-sociali degli italiani: «gli investimenti in nuove abitazioni tra 2008 e 2011 sono calati del 35,5 %, quelli in opere pubbliche del 29 % (fonte: Ance)»; in conseguenza di ciò, si registra anche una diminuzione dell’occupazione nel settore edile, con una punta – nel corso dell’anno – di 350 mila posti di lavoro persi ed un simultaneo aumento di ore di Cassa integrazione (+ 4,6 % rispetto al 2010). A mitigare l’andamento negativo del “nuovo” è il recupero abitativo, poiché gli investimenti di manutenzione straordinaria nel settore residenziale sono gli unici a registrare una crescita, seppur minima, dello 0,5 %, che tuttavia non riesce a far fronte alla flessione generale degli investimenti in abitazioni, pari al 18,2 % dal 2008 ad oggi.
Trovare nuove vie – Se proviamo ad uscire dalla lucida quanto fredda concretezza dei numeri, dobbiamo scendere un po’ più in profondità nell’analisi dei dati, ponendoci degli interrogativi diversi, che aprano nuovi e alternativi sbocchi nel settore, dato che «nel rapporto Censis dello scorso anno- recita il testo – si era sottolineato come il modello di crescita delle città basato sul consumo del suolo non ancora urbanizzato e sulla continuata dilatazione delle aree urbane, presenti oggi costi sociali, economici ed ambientali sempre meno sostenibili». Per questo motivo sembrerebbe più proficuo mettere mano all’enorme patrimonio già esistente e rimodernarlo (dato che quasi il 55 % delle famiglie vive in costruzioni che hanno almeno 40 anni di vita, che cioè appartengono all’ormai storico “boom edilizio” del Secondo Dopoguerra, 1946-1971), da un lato per adeguarlo a certi parametri tecnologici da cui oggi non si può più prescindere, e dall’altro per preservarlo dal pericolo di obsolescenza, che contribuirebbe anche a togliere valore agli stessi edifici.
Una possibile ricetta – Per fronteggiare la crisi in atto occorrerebbe una duplice linea di intervento: per un verso, la “densificazione urbana”, contro, dunque, la dispersione dei tessuti urbani che risultano più dispendiosi in termini ambientali e di mobilità, e a sostegno dell’efficienza e della sostenibilità; per altro verso, sarebbe necessario un intervento più drastico – specie in Italia – di “sostituzione edilizia”, per guardare «anche nel nostro Paese in termini più sereni e concreti questa possibilità, tenendo conto della bassissima qualità costruttiva ed urbanistica di tante aree delle nostre città».